Un nuovo prospetto dall'Islanda, terra di ghiacci, vulcani e... geyser di basket

Le storie di Gudmundsson, Stefansson e Tryggvi Hlinason, il nuovo prospetto della piccola isola innamorata della pallacanestro
05.08.2017 21:03 di Domenico Landolfo   vedi letture
Un nuovo prospetto dall'Islanda, terra di ghiacci, vulcani e... geyser di basket

Della scelta di Sam Bowie di Portland, che Michael Jordan ha annotato sul suo prezioso taccuino dei “desrespect” ne abbiamo sentito parlare e parecchio. I Trail Blazers, però, tre anni prima di quel celebre 1984 avevano compiuto un’altra scelta, epocale per certi versi, ma forse non passata alla storia con la dovuta attenzione: la squadra dell’Oregon, con la 61^ scelta aveva selezionato un semisconosciuto pivot, ex Washington Huskies di Division I NCAA, ma che dopo la laurea conseguita era tornato nel suo paese di nascita, l’Islanda, giocando per il Valur Rejkjavik. Ora, perché scegliere un atleta di 218 cm per 110 kg di peso è un segnale che quella NBA stava virando verso un dominio dell’area più marcato, che poi si sarebbe estrinsecato nelle scelte Olajuwon, Bowie (e rieccolo), Ewing e poi più tardi di Robinson e Duncan.

Quello che non molti sanno è che Karl Petur Gudmundsson è stato il primo “vero” europeo a giocare nella NBA in mezzo agli “americani” natuarlaizzati o meno che fossero. Ora, direte voi, qualche olandese (si non è sbagliato il passaporto) aveva già giocato nel massimo campionato statunitense, così come in tanti che battevano bandiere europee (esempio classico l’italico Mike D’Antoni), ma in tutti questi casi erano ragazzi nati e cresciuti nel continente scoperto da Colombo, che per discendenze familiari potevano vantare una doppia nazionalità. Gudmundsson, invece, era nato e cresciuto a Rejkjavik, era un figlio dell’isola dei vulcani, dei geyser e dell’aurora boreale che aveva trovato fortuna in America. Intervallati da fugaci passaggi nelle leghe minori, il pivot islandese metterà insieme più di 150 partite con le maglie di Blazers, Lakers e Spurs, tornando da eroe in patria, ma non facendo germogliare quel seme che sembrava poter portare nuovi interessi in un’isola che è parte del continente europeo ma al tempo stesso né è immancabilmente lontana.

Per la legge dei grandi numeri ogni 20 anni passa un giocatore che ti può svoltare, Jon Stefansson è ben più noto sui palcoscenici europei, perché era uno di quelli che ti sapevano far innamorare del gioco. Non solo per quelle triple delle sue, ma anche per la grinta e la voglia, quei capelli biondi mossi dal vento in uno step back come ci ha fatto vedere tante volte sui parquet NBA Manu Ginobili. Jon non è mai arrivato a quel traguardo che il suo predecessore aveva violato, di sicuro avrebbe potuto stare nella lega dell’allora commissioner Stern, ma forse quando la sua chiamata era nell’aria, c’era ancora tanto scetticismo verso gli europei, magari dopo qualche flop di troppo. Non che Stefansson si sia demoralizzato, tra Napoli, Roma e poi la Spagna, ha costruito la sua carriera, è diventato un simbolo anche per la sua nazionale che ha guidato da capitano all’ultimo europeo. Ha masticato pane e pallacanestro facendo innamorare il suo popolo, che lo vorrebbe primo ministro ad honorem tanto per essere chiari. Ora si gode Valencia, la sua ultima metà, ma per uno che porta la bandiera islandese sul cuore, il non tornare a casa non ha molto a che fare con le sue voglie.

Il prospetto era sconosciuto, un 19enne smilzo, grande apertura alare per un 7 piedi, piedi veloci e mano delicata. Creta era la terra del Labirinto del Minotauro, di Minosse, e fu distrutta da un misterioso maremoto o da qualche invasione che gli storici non hanno ben identificato, ma da questa terra così leggendaria, tanto lontana e al tempo stesso tanto simile all’Islanda, può nascere una nuova storia, quella di Tryggvi Hlinason, un ragazzo che si è messo in luce nell’Europeo under 20 e che è finito dal “sorvegliare le capre” a diventare uno dei nomi sui taccuini degli scout NBA, potenzialmente, almeno secondo gli addetti ai lavori, l’erede tecnico di Doncic, con un fisico più idoneo al massimo campionato americano.

La sua storia è una di quelle che meriterebbero un film: detto della pastorizia, la sua routine era scandita da raccolta del fieno, dal guidare spazzaneve e fare qualunque cosa che potesse tenere in vita la sua fattoria, condivisa con ben 11 persone. Il nome della sua città è impossibile da scrivere, ma un luogo di 900 anime a 400 metri sul livello del mare, un posto unico e fuori da ogni logica per chi non lo ha vissuto, in cui il tempo per il lavoro manuale toglie gran parte della quotidianità agli abitanti. Non è che il ragazzo avesse campi su cui allenarsi, né era ossessionato dal gioco, ma quando si trasferisce ad Akureyri (18.000 abitanti) per la sua High School, le cose cambiano. Non che fosse andato per la pallacanestro, voleva imparare a diventare un buon elettricista per tornare alla sua fattoria e apportare le migliorie, ma lo zio, che aveva giochicchiato nel campionato semi-pro dell’isola vulcanica, gli dice che data la sua struttura fisica, magari un tentativo col basket poteva essere fatto.

Ci sono tanti equivoci legati alla sua “prima volta” con l’under 17 di Akureyri, dal non avere scarpe adatte, all’errore su quale fosse la palestra in cui si svolgesse l’allenamento, con un curioso siparietto del coach Oddsson che lo deve andare a rincorrere fino ad una stazione di servizio. Schiacciava senza fatica senza aver mai toccato una palla da basket, ma poi c’è da tornare a casa in fattoria, e con l’inverno ci vuole il suo caro spazzaneve spesso e volentieri per farlo allenare.

In 40 mesi è passato dall’essere un ragazzo che amava lo sport ma non aveva mai messo piede sul parquet alla firma con Valencia (t’oh, la squadra di Jon Stefansson), nonché ad essere sotto la lente d’ingrandimento degli scout NBA. Ancora incerto se la squadra spagnola lo terrà con la prima squadra fin da subito (è già aggregato per gli allenamenti) o lo manderà almeno per la prima parte di stagione di LEB Gold, la Secunda division, in cui potrà abituarsi a ritmi, allenamenti e strutturarsi ulteriormente. Se comunque è già riuscito a guidare con prestazioni assurde la sua Islanda under 20 ad una storica elite 8 all’Europeo di Division A, chissà cosa potrà fare in futuro. Un vulcano pronto a eruttare, attenzione.