Vainauskas, l'uscita razzista e la reazione del mondo del basket

"Abbiamo preso quattro giocatori neri ed hanno formato una gang" e scoppia la polemica
16.06.2017 20:38 di Domenico Landolfo   vedi letture
Gedvydas Vainauskas
Gedvydas Vainauskas
© foto di Foto Lietuvos Rytas

La scena è quella di un film sul basket di quelli che sono molto apprezzati: Josh Lucas che interpreta Don Haskins sta giocando a biliardo con Doc e Moe e questi, all'idea di tesserare dei ragazzi newyorkesi di colore, cita un arcano che aveva dominato il basket di quelle ere: "c'è una regola non scritta, ne fai giocare uno in casa, due in trasferta e tre se sei sotto di parecchio, la cosa non cambierà". Si ricrederà, un basket diverso, a livello universitario vedrà abbattute le barriere razziali e quando la Nba si consegnerà alle grandi star senza guardare al colore della pelle, quel processo che era iniziato, seppur nel baseball, con Jack Robinson, il 42 dei Brooklyn Dodgers, giungerà a ignorare il dettaglio razziale.
Era da molto tempo che frasi razziali non travalicavano di nuovo i confini della pallacanestro, ma sembra che la lezione non sia stata imparata, giacché le dichiarazioni di Gedvydas Vainauskas, del presidente del Lietuvos Rytas, squadra del campionato lituano, han riproposto un tema e addirittura un "orientamento" che si è consolidato nella gestione di una formazione. Salvo il comunicato di smentita, il canonico fraintendimento degli addetti ai lavori (l'Eurolega ha aperto un procedimento disciplinare contro il club), il tema sembra purtroppo restare di attualità. Perché spesso si parla di riduzione del numero degli stranieri per squadra, di formule 5+5, 3+4+5+, 3+7 che significano poco dati i passaporti più comuni delle carte d'identità in alcune regioni del mondo. Tali questioni attengono davvero solo allo sviluppo dei nuclei nazionali o bisogna pensar male e vederci del torbido?

Non è la Danimarca, parafrasando Shakespeare. Il tema dei nuclei dei giocatori, che riprendendo le erronee parole del presidente del Lietuvos, formino delle gang e - standosene tra di loro - decrescono il loro rendimento in campo, fa riflettere. Se le parole sono state riqualificate nell'ambito di uno scarso risultato sul campo, interessante riflettere su una sorta di "policy" della squadra rossonera che imponeva due giocatori di colore e non più. Ora, a voler pensar male si fa peccato, ma immaginare la questione se David Logan, che aveva iniziato la stagione in Lituania con questi colori, fosse inteso nella "gang" dei giocatori di colore a cui il presidentissimo si riferiva.
Non serve nascondersi dietro un dito, alcuni focolai di queste ideologie permeano ancora i nostri tempi, ma pensare che il colore della pelle, l'etnia, la provenienza o la "professionalità" di un giocatore facciamo la differenza nel vincere o perdere le partite, è oltremodo paradossale ed inaccettabile. Non siamo più in quella palestra, come in Glory Road, dove ai "coloured" viene riservato lo scampolo di garbage time, né più la squadra di Adolph Rupp, che doveva vincere perché superiore. Serve coerenza e rispetto, armi spuntate della nostra società, che a partire da cose semplici come un campo da basket poi potrà evolversi anche a questioni più rilevanti. Ma se un gioco meraviglioso può essere disonorato da pensieri del genere, certe volte, sarebbe meglio chiudere tutto, riporre il cestino delle pesche nel ripostiglio, e iniziare a pensare a trovare un passatempo diverso.