Il ritorno negli Usa di Nate Robinson, ora ai Delaware 87ers

Il piccolo grande uomo ha iniziato stanotte la sua carriera Nbdl
15.02.2017 18:45 di Domenico Landolfo   vedi letture
Fonte: Nbdl
Il ritorno negli Usa di Nate Robinson, ora ai Delaware 87ers

Il Delaware è il centro del nulla, paradiso fiscale che le principali company americane hanno utilizzato per porvi i propri centri di sviluppo industriale, facendone infatti un polo avvenieristico in mano alla tecnologia dei nostri giorni. Il progresso corre veloce, ma non di certo può essere dimenticato un “plain” fatto di deserto su cui innestare la crescita, l’opportunità ed il business. Dove poteva ripartire la carriera di Nate Robinson se non dai Delaware 87ers, compagine di Newark dell’attuale Nbdl?

Ha giocato dopo tanto tempo su un parquet americano, dopo aver girovagato le franchigie Nba ed essere volato in Israele, dominando in lungo e in largo dall’alto dei suoi 175 cm, cosa che non gli ha impedito di vincere per tre volte la gara delle schiacciate All Star Game (record all time) o di divenire una delle icone di uno sport che veniva etichettato come quello delle “altitudini”. Saranno stati anche solo 13 minuti, solo 3 punti, la prima tripla della sua gara, e poi di lì 7 errori dal campo, qualche palla perse frutto della lontananza dal campo, ma sono arrivati anche tre assist di quelli che fanno dimenticare qualsiasi cosa negativa.

Non doveva essere un giocatore di basket, lo sport di famiglia è il football americano e dimostra egli stesso di avercelo nel sangue, giocando 16 partite al college e con due intercetti nell’Orange Bowl e 31 tackle nella stagione guidare anche i suoi ad un titolo regionale, ma quando il basket chiama (e la squadra di Washington University è competente data la presenza di Brandon Roy) ne esce un ragazzo senza precedenti, che arriverà ad imporsi sui parquet americani, chiamato da una New York in fase di ricostruzione che non potrà fare a meno del suo piccolo grande uomo nonostante tutti i drammi e gli uragani che ne conseguiranno.

Forse non sarà stato immortalato da Spike Lee, che magari invece ne avrebbe potuto fare un’icona di stile, ma è il simbolo di quello che i Knicks rappresentano: essere un cavallo di razza in declino, capace ancora del grande colpo, magari schiavo di una serie di insuccessi in sequenza. A Chicago è quello che nei playoff prende per mano una squadra a vocazione difensiva che, senza punte, si ritrova appesa alla sregolatezza di uno che non si ferma a pensare alla prossima mossa, ma tira dritto, nel bene e nel male.

Ha distrutto Superman, è diventato Superman, ha stoppato il suo opposto, Yao Ming, ha schiacciato in testa a fior fior di difensori e mandato al bar con le sue finte giocatori a cui è passato letteralmente in mezzo alle gambe. Ha girato le squadre e poi va in Israele, esperienza a dir poco mistica, dove nei playoff domina il campionato, come sempre aveva fatto, con i suoi metodi alternativi di vincere le gare, senza regole, creandole per sé.

Avrebbe potuto scegliere la Cina, diventare una superstar pagata a peso d’oro, invece ha aspettato, ha quasi passato un provino con i Seattle Seahawks della Nfl, ed è ritornato nella sua città, patria della coffee culture a godersi la famiglia, che come ammette in intervista a fine della sua prima gara, lo tiene particolarmente impegnato. “Tornare al gioco è però come darmi ossigeno, darmi quello di cui ho veramente bisogno per vivere e sentirmi felice, senza mancare di nulla”. Basterebbero queste parole per dire “I Love This Game”, ma Nate non può limitarsi all’ordinario, perché considerato per i suoi tratti comuni, nemmeno sarebbe dovuto arrivare a dominare su quei parquet.