Quintetto e ovazione: è l'ultimo tango sul parquet per Manu Ginobili?

Cinque minuti di applausi e poi la folla che urla il suo nome: forse la fine della carriera di un giocatore sublime
23.05.2017 13:02 di Domenico Landolfo   vedi letture
Manu Ginobili
Manu Ginobili
© foto di Twitter Spurs

La chiamavano Bahia Blanca gli Spagnoli per il sale che si posa delicato sulle quelle coste bagnate dall’Atlantico, che resta immortale nel tempo e rende ricca la zona: è un po’ inglese, di stile liberty e liberal chic ed un po’ neoclassica, con le sue grandi costruzioni che svettano nel centro, nonché ha una forte presenza italiana, che ha portato quel calore e quella bonomia che si sono innestati nel sangue autoctono, già di per sé parecchio incline ad accendersi. Ha porti che commerciano con tutto il mondo e ci tiene alla salute dei suoi abitanti, con un medico ogni 266 cittadini e, last but not least, è la patria di molti dei protagonisti di quella generacion dorada che ha reso grande la pallacanestro argentina.

Il nostro viaggio comincia da qui, dal posto in cui Emanuel Ginobili ha mosso i suoi passi su campetti e parquet, cercando di emulare suo fratello, ogni giorno provando qualcosa che al maggiore di casa non riusciva, affinando la tecnica ed i fondamentali. Ha una visione periferica fuori dal comune, al di là di essere un’azione di gioco davanti a tutti, riesce esattamente ad avere univocità di pensiero tra ciò che lui ha intenzione di fare e ciò che invece di lì a poco accadrà. Tira con percentuali pazzesche, è uno di quelli che in campo ci mette tanta garra, un argentino purosangue in stile cavallo di razza, ma si dice che sia un individualista. Arriva in Italia con un buon pedigree ma semi-sconosciuto ai più, in un’altra città di mare, Reggio Calabria, la prima tappa del suo percorso e qui mostra al mondo chi è. A tutti quelli che erano suoi detrattori, sia in termini di difesa che di visione gioco, la risposta arriverà nella città delle Università, Bologna, dove nel sistema di Ettore Messina e della Kinder Bologna è il fulcro di quella squadra che non poteva perdere, forse solo con se stessa o negli allenamenti.

Di qui il grande salto nel mondo Nba, in un mondo parallelo alla corte di un allenatore che ha la fama di distruttore dei talenti, di persone e che tende a ingabbiare i suoi giocatori in una rigidità di sistema in cui le rapsodie bohemien non sono ammesse. Ripensando all’ultima gara di stanotte, a quando Popovich, che già gli aveva concesso la standing ovation, dopo 33 minuti sul parquet (a 40 anni) gli chiede se vuole rientrare – perché il pubblico da quasi 5 minuti non fa altro che gridare il suo nome incessantemente – e Manu con un sorriso che ha accompagnato la sua carriera gli dice: “Coach, grazie, ma va bene così”, verrebbe da dire che tutte quelle malignità sono state ampiamente glissate. Han vinto tanto insieme, sono cresciuti, hanno avuto rapporti burrascosi e hanno superato le difficoltà passo dopo passo, con il cambiare delle squadre e dei giocatori, e sono arrivati serenamente a quest’ultimo giro di tango, accompagnato dal solito immancabile bicchiere di porto.

I capelli sono cresciuti, fluttuati al vento in più occasioni – anche con l’aggiunta di abile actor studio – diventando il simbolo del flopping, senza troppe ragioni. Lui li ha tagliati, un po’ per smentire ancora una volta gli scettici, un po’ per l’incedere dell’età, e l’ultimo ricordo sul parquet che di lui avremo sarà quello del “pelado” che fa un tunnel a David West, attacca il ferro in terzo tempo e viene fermato solo dal passaggio a livello di Durant. Si potrebbero raccontare tante storie su di lui: un inizio in cui Pop non si fidava lui, la scelta di Duncan di averlo come suo fromboliere, il passaggio a Horry nella vittoria sui Pistons, la supremazia contro i Cavs, alcune giocate decisive nel successo contro Miami ma i flash non sono ciò che gli interessa. Più che i suoi successi sul campo è il suo modo di essere che ha fatto parlare, la velocità delle sue mani e la sua mente a tratti infingarda a tratti geniale. Bullet pass, pocket pass, dietro la schiena, split, tutti termini che sentiamo spesso nel gergo comune e che non hanno in lui un inventore certamente, ma che in Manu – perché Emanuel oramai lo ricordano in pochi – han trovato un artista capace di perfezionare ogni dettaglio, spingerlo al limite del possibile, descrivendo l’immaginazione come avveniva per i grandi giocatori del passato come Pete Maravich ad esempio.

Oggi a 40 anni, quei due minuti in cui il pubblico inneggia il suo nome sono come la musica che ha accompagnato la sua carriera, che lo ha portato sulla cima mondiale ed olimpica con quelli che erano i suoi amici di sempre, in una marcia trionfale che in quel successo contro il Dream Team degli Nba ha l’ennesimo acuto. Finisce con la passerella in cui tutti, finanche Curry e Durant, non possono che applaudire, con la quasi certezza che non lo vedremo più sul parquet, per quanto tutti lo desidereremmo, mentre lui, che dentro di sé è un tripudio di emozioni, rimane quasi assorto, per non dire impassibile. Non so se Harden da casa stesse guardando o applaudendo, ma il solo dubbio dell’averlo pensato mi fa pensare di sì, quella stoppata, più decisiva delle finezze di gara 3 e 4 con gli Spurs, sono l’ultimo passo del più eccellente ballerino di tango sul parquet, che ha saputo far innamorare tifosi e appassionati, farsi odiare dai suoi detrattori, ma sempre e comunque col sorriso e la semplicità di chi con quel 20 sulle spalle ha scritto la storia, senza se e senza ma. Forse Manu potrà fare a meno di questo frenetico mondo Nba, ma forse noi non eravamo pronti a vederlo abbondare il parquet. Certi campioni sono immortali, come quel sale che rimaneva sulle coste a Bahia Blanca, passano il tempo senza invecchiare pronti a farci ogni volta rimanere imbambolati a renderci conto di cosa davvero i nostri occhi possono aver visto.