Sport & Diritto: la grande muraglia di Twitter e la Nba

Continuano le polemiche dopo gli ultimi "cinguettii pungenti" di alcune stelle Nba
25.02.2017 17:47 di  Domenico Landolfo   vedi letture
Sport & Diritto: la grande muraglia di Twitter e la Nba

Il sottile confine che divide la diffamazione dalla libertà d’espressione è argomento quanto mai attuale, non solo perché il mondo social e globalizzato oramai mette bocca su tutto, ma anche perché sono cambiate le cosiddette utenze di ascolto e le casse di risonanza di ogni singola parola possono essere potenzialmente illimitate. Il ragionamento espresso dalla Suprema Corte di Cassazione Penale, che ha portato la previsione di una diffamazione “aggravata” se è predeterminata a mezzo social (senza le dovute restrizioni) non si estende però solo ai tribunali, ma impone una doverosa riflessione su quanto succede al di là dell’oceano.

Ricordavamo di come alcuni commissari tecnici avessero vietato durante gli scorsi europei e mondiali ai propri calciatori di usare twitter o qualsiasi mezzo di diffusione del pensiero al mondo social. Una imposizione magari dura, ma tutto sommato rispettata. Quando il Commissioner Nba Adam Silver aveva “gentilmente” imposto una sorta di silenzio radio a squadre e propri tesserati, sicuramente si aspettava una collaborazione che dovesse essere scevra da qualsiasi imposizione come può essere quella di una Suprema Corte di magistrati.

In Italia avevamo avuto qualche anno fa problemi, subito messi in cantina, poco prima di una Coppa Italia, ma nel mondo americano è successo un autentico putiferio, con un paio di notti ad alta tensione, da corto circuito, con due direzioni: Golden State e New York, e nel mezzo Tnt, Los Angeles e Shaquille O’Neal. Al bando il fioretto, si colpisce qualsiasi pezzo della figura, le armi da taglio sono affilate: chi diceva che la parola, la lingua, è più tagliente della spada, meriterebbe una quota delle partecipazioni azionarie di Twitter.

Partiamo dalla Grande Mela, che non dorme mai, specie dopo le partite, di solite perse, dai New York Knicks, che uscivano dalla sfida coi Cavs spezzati nel morale e non solo, anche delusi dopo una trade deadline che non aveva portato alcunchè né in ingresso né in uscita alla truppa di Hornacek. Due di quelli che avevano già chiamato un taxi per Newark, per il JFK o comunque affittato una ditta di traslochi, ovvero Derrick Rose e Carmelo Antony, sono rimasti ancora a vestire la maglia arancione tanto cara a Spike Lee. Non si sono però lasciati scappare piccati commenti che trascendono il campo.

Rose, che è anche, de relato, chiamato in casa con le polemiche in casa Bulls per la maglia #1 chiesta da Morrow e negatagli, ha gettato un macigno bello pesante nello stagno, palesando i limiti di una triangle offense che viene dalla presidenza Phil Jackson, ma che sul campo è affidata – a suo giudizio – alla casualità impartita da coach Hornacek. In qualsiasi azienda le gerarchie di comando sono essenziali per provare a dare fiducia, ma l’ex play di Chicago non ha nascosto dubbi sulle continue improvvisazioni cui è costretto. Se a parlare è il playmaker della squadra, magari due domande ci stanno.

Meno politically correct è Carmelo Anthony, mostratosi anch’egli confuso in relazione alle scelte della società, che prima lo aveva esposto alla berlina per trovare una trade e che ora non ha portato a termine quel piano senza avere una valida alternativa. Velate, ma ben individuabili, sono le accuse ancora a Phil Jackson, che prima dei fatti della gara con Charlotte aveva dimostrato la sua posizione, non favorendo la permanenza dell’ex Syracuse nella Grande Mela. Quanto valgono allora i dettami del mercato, delle trade, se con tre righe di tweet qualsiasi piano può essere così agilmente rivoltato?

Spostiamoci a Oakland, dove Golden State contro Clippers ha lasciato ben più sonori strascichi del terzo tempo a sei passi con cui Durant (che sarà protagonista seppur in limine della nostra storia) regala al pubblico una schiacciata da incorniciare nel terzo quarto.  Passo indietro: avete presente l’intermezzo di TNT curato da Shaquille O’Neal denominato “Shaq-tin-a-fool” che ci mostra di solite alcune perle di errori marchiani dei giocatori Nba? Beh, tra i protagonisti “abituali” di queste clip c’è Javale McGee, che stufo del ludibrio a cui è sottoposto, ha denunciato, senza mezzi termini la trasmissione e l’ex centro dei Lakers, il quale non si è lasciato sfuggire l’occasione per rispondergli per le rime, senza troppi giri di parole. Polemiche a gogo e a difendere il compagno arriva Kevin Durant, con parole forti, risposte altrettanto prontamente dal pivottone ora opinionista per l’emittente americana. La salsa Worchester è già spalmata, la polveriera è ben accesa, ulteriori screzi non si lasceranno attendere.

Potevamo concludere questo film western senza Draymond Green? Ovviamente no. Golden State batte i Clippers, DG rimarca la cosa senza voler essere frainteso, dicendo a Pierce che non è un countdown che lo avvicina al ritiro, come quello di Kobe, semplicemente perché lui non è come il #24 dei Lakers. Per uno che è soprannominato “The Truth” di certo non è strano rispondere senza peli sulla lingua, sottolineando le 73 vittorie, il non titolo, e la delusione che solo un frustrato perdente può avere.

In una giungla senza regole quali contromisure. Magari abbiamo riportato solo cose più eclatanti e nel sottobosco Nba, magari sul profilo di Chandler Parsons, scherzosamente pensandoci, ci sarà dell’altro passato sotto traccia. Nell’era dell’informazione digitali questi non sono più solo messaggi, ma autentiche bombe che fanno male al sistema e non portano ad altro se non a risse, becere e deprecabili. Silver è stato forse troppo morbido, urge una misura più stringente oppure ben presto sarà il mondo dei tweet a battere quello della pallacanestro, o forse ancor peggio quello in cui multe salate e sospensioni comminate dai garanti con la toga faranno spostare e non poco gli equilibri del cash flow di uno dei più grandi business mondiali.