Au revoir Capitan Waback. Diaw lascia la Nba e firma al Levallois

Una carriera vissute sempre "en plen aire" per il giocatore che tra Phoenix e San Antonio ha regalato attimi di pallacanestro ed emozione unici nel proprio genere
17.09.2017 09:35 di Domenico Landolfo   vedi letture
Au revoir Capitan Waback. Diaw lascia la Nba e firma al Levallois

Il flashback è nitido, forse non ha direzione definitiva, ma rimanda prepotentemente a quelle Finals delle 2014, quelli della pallacanestro perfetta di San Antonio. Con il suo corpo che nessuno penserebbe di un atleta, le movenze di un leone stanco ma sempre raggiante come papà che salta in alto, la grazia di una ballerina sulle punte, come mamma che era ed è stata una dei centri più forti della storia del basket in rosa; poi quelle mani, pianista raffinato di quelli che possono fare l’amore con la palla, nascondertela, servire un compagno al punto giusto. Steve Nash, a Phoenix, trovò in lui il suo cambio, ed è tutto dire, non è un caso, ed è un tributo che è stato riservato a pochi dal canadese.

La carriera di Boris Diaw, solo per scrivere il suo nome più breve, è un excursus non solo cestistico ma anche e soprattutto un trattato di antropologia culturale della vita applicata allo sport. Continuerà al Levallois, in Pro A Francese, chiuderà e poi chissà a cosa si dedicherà, perché lui sul campo poteva tutto e ha fatto di tutto, bisognava solo che potesse aver modo di divertirsi, ma fuori dal campo è un vulcano indefinibile ed indecifrabili di idee, emozioni e di vita “en plen air”. Non è un caso che non tutte le pallacanestro del mondo Nba gli siano andate a genio, che non sia stato facile da gestire, ma proprio per questo è uno di quelli che fanno al caso quando c’è bisogno di quel qualcosa ad una squadra che vuole vincere. Non meravigliamoci se magari, sul far del prossimo Aprile, una chiamata da un Pop che vuole battagliare ai playoff o da un Lebron che ha bisogno di un passatore affidabile possa riportarlo di nuovo al di là dell’oceano.

Sono pochi i giocatori che potevano giocare in 5 ruoli. La pallacanestro di Mike D’Antoni gli ha dato la libertà che non gli era concessa ad Atlanta, dove doveva essere un esterno puro (e non a caso lo scambiano “alla pari” con Joe Johnson). È stato come detto, la riserva di Steve Nash, ma anche quello che faceva rifiatare Marion nelle sue pause dal gioco. Ha mascherato i difetti di Staoudemire in difesa e si è preso il suo posto da pivot in emergenza quando A’mare e Kurt Thomas erano andati ko, ed i suoi numeri sono sempre stati in crescendo, anche se a Phoenix non ha vinto niente.

La testimonianza del rapporto indirettamente proporzionale tra love of the game e place of the game è descritta appieno dagli anni di Charlotte, dove con coach Brown scambia si e no due parole in tre anni e finisce ai margini di un gruppo, ceduto quasi fosse merce avariata agli Spurs, perché Popovich ci vede lungo, ma anche perché il francesino Parker garantisce per lui. Ne nascerà un rapporto mistico, zen, un po’ come Kobe e Phil Jackson. È l’idillio tra l’amore per il gioco e il modo di giocarlo. A San Antonio non vince solo un titolo (a cui si aggiunge la finale persa nel 2013, quella della tripla miracolosa di Ray Allen) ma trova tutto quello che gli serve.

Bastano pochi aneddoti per capirlo, ma qui è doverosa una lacrima d’ordinanza, che inizia a scendere sul volto di chi scrive. Lasciando perdere quei sorrisi e quella bonomia che colpiscono anche Duncan e Leonard, due che non ti regalano un’emozione, è il rapporto con Popovich a stupire. Entrambi vedono il basket come un arpeggio intessuto di fili invisibili che possono essere la tua croce e delizia, vero, ma che se sai innestare con talento e follia possono essere la chiave del successo. Come la ricetta segreta nella cura dell’uva… Scatta la scintilla. Lui porta i vini rossi del sud della Francia, e davanti a un calice di quelli pregiati si passa senza problemi dall’ultimo frame dalla partita ai discorsi dei massimi sistemi.

L’armadietto della #33 neroargento ha poi lo scomparto segreto… Non pensate al feticcio, semplicemente è collegata una macchinetta per il caffè di quelle professionali, Capitan Waback impone la sua regola, due al giorno e si trotta sul campo, quasi come la ricetta della mela per evitare il medico: diviene virale, tutti diventano “coffee addicted”. Potremmo chiudere dicendo che con la nazionale non si è mai tirato indietro, ha costituito con Tony Parker, suo amico, fratello, testimone di nozze nell’idillio con Eva Longoria, un’ossatura unica e di quelle che han fatto sognare una generazione intera, ma i numeri ed i trofei vinti non dicono nulla di lui, come diceva l’Avvocato per Jordan, i numeri lo offendono.

La pellicola gira ancora, sottomano per Duncan, dietro la schiena per Splitter, assist nell’angolo per Duncan, tripla dall’angolo con saltello alla Allen nel 19/21 dal campo che apre quella gara 4 sul parquet di Miami, la nostalgia è lacerante, perché quel basket e quella squadra in particolar modo, stanno tramontando, pezzo dopo pezzo. Magari Tony lo richiamerà, magari strapperà anche un altro sorriso a Leonard, o servirà un caffè a Ginobili, forse, ora porterà la sua bonomia ed il suo amore per il gioco in Francia, da dove tutto è partito, e potrebbe essere l’ultima fermata, dato che gli anni sono 35 e le ginocchia scricchiolano di tanto in tanto. Eppure, anche se non potrebbe mai ammetterlo, ha lasciato il segno, non solo nei tifosi, di cui spesso è l’idolo indiscusso, ma anche e soprattutto in un gioco in cui vedere un 5 ruoli, di oltre due metri, che ha mani da pianista e piedi da ballerino, è forse, ad oggi, utopia di tempi lontani.