Stephon Marbury infiamma i parquet: "Sto lavorando duro per tornare in NBA"

Il play, da 7 anni nella Chinese Basketball Association, medita un suo possibile ritorno nella NBA
14.09.2017 18:45 di Domenico Landolfo   vedi letture
Stephon Marbury infiamma i parquet: "Sto lavorando duro per tornare in NBA"

One day you can see me playing at 50… Don’t laugh, never say never, because limits, like fears, are, often, just an illusion”. Così Michael Jordan salutava la platea dopo l’ingresso nella Hall of Fame, una minaccia o una promessa non è mai stato chiarito, con più volte false news che han fatto crescere botteghini e attese in casa Hornets (dove forse gli argomenti non è che siano così tanti), ma quel sentore che le porte socchiuse possano riaprirsi continua a permeare la Nba, ancora oggi.

Se ci si era meravigliati per la scelta di Sacramento di dare un anno di contratto, forse l’ultimo, a Vince Carter – e Dio solo sa cosa potrebbe insegnare in termini di letture al suo nuovo compagno Bogdan Bogdanovic – la breaking news rimbalzata dalla Cina sui principali network a stelle e strisce legati al basket ha avuto dell’incredibile: Stephon Marbury sta pensando “seriamente” di tornare nel mondo Nba, a 40 anni suonati, dopo 7 anni di Cina in cui oltre a vincere allori e dominare sul parquet, ha trovato pace e armonia come nel migliore dei tempi Shaolin.

Per un giocatore che, scelto al draft del 1996 e sempre protagonista, al momento vede ancora le sue medie di carriera nel massimo campionato americano a quasi 20 punti e 8 assist di media – e potrebbero essere decisamente più altre se alle sue esperienze venissero tolti l’ultimo anno e mezzo da separato in casa ai Knicks e la stagione da ultima ruota del carro a Boston – la scelta di voler ritornare a un modo che di fatto lo aveva sputato via è una questione di orgoglio, di volontà, di quella incoscienza che ti spinge a superare i limiti, a voler primeggiare.

Del resto un nativo di Coney Island queste cose non può ignorarle, perché in Cina è diventato un eroe, per non dire superman, gli han costruito una statua più grande di quella di Jordan fuori il Center a Chicago, perché nel campionato all’ombra della Grande Muraglia non veniva assegnato nessun premio per i giocatori stranieri – regola cambiata proprio post “Starbury” – ed ha vinto da protagonista sempre e comunque, ma aver fallito o comunque non essere stato capace di arrivare a quell’anello, è qualcosa che resterà un fardello. Non sarebbe una scelta egoistica, come quella di molti giocatori che vanno a svernare a metà stagione in una squadra da titolo per non essere ricordati come dei talentuosissimi perdenti, quanto invece il ruggito di un leone che vuole riportare in alto il nome del suo quartiere.

La sua missione, che si sposa in quelle logiche di Chain Gang, vuole essere un riscatto per tutti quelli che non ce l’hanno fatta, vuole essere un esempio positivo, un faro di speranza in un quartiere in cui anche i “salvati” come possono essere Jamel Thomas o il “bad boy” Sebastian Telfair (in teoria sarebbero tutti parenti fra loro) hanno avuto tanti, troppi problemi per poter regalare un sorriso vero, una speranza a quel luogo in cui, a parte il torneo estivo finanziato dai tre giocatori di cui sopra e l’occhio ancora lungo, nonostante l’età, di Sonny Vaccaro e della sua signora, scopritori e finanziatori dei giovani talenti, c’è davvero ben poco di cui gioire.

I Bejing Ducks, che saranno la squadra di Aaron Jackson, che avrà un “burden” non da poco sul groppone, stanno provando in tutti i modi a convincerlo a indossare più spesso la giacca e la cravatta e a portare il verbo della pallacanestro sulla panchina, da allenatore, ma l’idea al momento non lo stuzzica ancora, perché sa di poter ancora dare qualcosa, come ai Nets, come ai Suns, come quando New York intera era ai suoi piedi ed il suo tweet di qualche giorno fa è stato eloquente: “It's time to combine. My next move is the best move. Working on the come back to the #nba”. Serve dire altro?