Eleven Forever: Dino Meneghin racconta la sua Olimpia Milano

Meneghin vedrà ritirata la maglia numero 11 nel corso della sfida tra Olimpia Milano e Maccabi Tel Aviv di martedì prossimo.
12.11.2019 12:02 di Ennio Terrasi Borghesan Twitter:    vedi letture
Eleven Forever: Dino Meneghin racconta la sua Olimpia Milano

Dino Meneghin venne acquistato da Milano nell’estate del 1981. Fu una svolta epocale per il basket italiano, perché fino ad allora Dino Meneghin era stato sinonimo di Varese: cresciuto in città, membro delle giovanili e poi stella di una squadra cinque volte campione d’Europa. Ma Varese doveva ripartire e cedendolo mise a posto tante cose.  La storia del suo arrivo a Milano, la racconta Dino stesso. “Avevo due offerte, di Venezia e Milano. Scelsi Milano perché era una società con grande esperienza e storia, che puntava a vincere, ben organizzata con pochissime persone che decidevano: Gabetti, Cappellari e Dan Peterson. A Varese era stato così con Borghi, Gualco, Nikolic e gli altri allenatori. Poi era vicina a Varese, ero legato alla mia famiglia, genitori, fratello, mio figlio. La vicinanza è stata decisiva.

Mi chiamavano Dottor Gibaud perché mi sono fatto male tante volte. A Milano mi vedevano come fumo negli occhi, ero un rivale – prosegue Dino -. Arrivo e mi faccio male. Fu un colpo al morale pazzesco. Farsi male a 20 anni è una cosa, a 31 un’altra. Pensavo al recupero, ma anche a quelli che mi avevano preso e avevano il diritto di mettersi le mani nei capelli, anche se non me l’hanno mai fatto pesare. I tifosi dicevano che ero vecchio. Il primo mese lo feci da solo nella palestra in alto al Palalido con Claudio Trachelio. Non una parola, una pressione da parte della società.

Ricordo la prima partita, a Rieti. La prima azione in difesa, prendo il rimbalzo e sento dire “Bravo Dino”. Era Roberto Brunamonti, era ed è un mio amico: mi incoraggiava perché era la prima azione da giocatore che facevo dopo tanto tempo. Gli avversari li consideri nemici, ma poi capita che siano invece persone straordinarie.

Avevo un contratto di due anni, pensavo di giocare due anni e poi smettere. Ma un giorno, Peterson mi disse che avrei dovuto pensare alle Olimpiadi del 1984 a Los Angeles. Dissi sì, come no? Pensavo fosse pazzo, ma può essere che mi abbia dato una sveglia al cervello e spinto a pensare positivo. Poi ho avuto la fortuna di venire a Milano e giocare con grandi campioni, con Mike D’Antoni, John Gianelli, Roberto Premier, Vittorio Gallinari, Franco Boselli. Non erano solo compagni di squadra, ma persone straordinarie con le quali ero molto legato anche fuori del campo. Ricordo le cene a casa di D’Antoni o di Premier. O i dopo partita. Si era costruito un rapporto ottimale che andava aldilà delle gelosie. Era lo stesso che avevo a Varese con Bisson, Zanatta, Morse… E’ stata una fortuna”.