A tu per tu con Ron "Hollywood" Harper, un 5 volte campione NBA

L’impatto con Ron Harper non è di quello che ci si potrebbe aspettare: ha la bonomia di un classico giocatore da playground, sorride al pubblico e ai fan e si diverte ancora a tirare come un ragazzino, magari ha dimenticato uno dei suoi anelli da campione in albergo, ma è pronto e sereno nel rispondere alle domande della stampa, seduto sulla sua sedia come se fosse in pausa tra un timeout e la ripresa di un match sul parquet. Non capita certo tutti i giorni di poter intervistare un 5 volte campione Nba, una guardia che ha dovuto reinventarsi nel corso della carriera, passando dall’essere il primo tiratore di Cleveland, che lo aveva scelto nel 1986, a diventare il play e soprattutto l’anello di congiunzione difensiva, chiave del gioco di Phil Jackson, nei Chicago Bulls di MJ prima, e nei Lakers di due giovani Kobe & Shaq poi.
Le sue parole sono posate, tagliano l’aria, sono quasi atletiche e fanno da contraltare alla sua figura statuaria, di quelle che intimoriscono l’attaccante prima col fisico e poi con le sue lunghe leve, pronte a scipparti del pallone prima psicologicamente e poi materialmente. In piazza poco prima era stato mostrato uno stralcio della finale coi Sonics, quando si era preso cura del “guanto” Payton, e aveva parlato della squadra del '96-97 la più forte della storia, a suo giudizio, eppure nelle sue parole non traspare mai un minimo di tracotanza o arroganza, anzi è disposto sempre a un bagno di umiltà e a fare un passo indietro rispetto a tutto quello che è stata la sua carriera.
Si parte forte con la differenza tra coach Larry Brown e Phil Jackson, “due figure importanti, uomini tosti, con cui però sai sempre cosa devi fare e come comportarti sul parquet, hai un tuo ruolo e devi portarlo a termine, altrimenti sei fuori. Lavorare sodo e non sentirsi mai appagati, questa la chiave per farsi trovare pronti sempre e comunque, quando la partita chiama, quando non c’è possibilità di tornare indietro”.
La conversazione posa poi sui nuovi Cleveland Cavaliers, “my home” nelle parole del #9 che ha vestito la maglia Cavs nei primi anni di gloria della franchigia dell’Ohio dopo tanti anni bui e di sconfitte. Il suo giudizio, specie alla luce di quello che è stato lo scambio tra Irving e Thomas è comunque positivo: “hanno operato bene sul mercato, stanno comunque cercando di ricostruire la squadra anche perché questo sarà l’ultimo anno di Lebron”. Per uno che non le manda a dire, la notizia fa eco nella sala in cui ci sta concedendo il suo tempo.
Si scende sul piano tecnico, sul suo essere leader e difensore e ancora una volta la sua scelta non è diplomatica, ma tranchant: “La differenza tra i difensori della mia epoca e quelli attuali è in termini di aggressività. Ci sono ottimi giocatori, ma le nuove regole hanno cambiato un po’ il modo di vedere la pallacanestro e di sentire i contatti. Non è più un gioco duro, alla prima infrazione l’arbitro rivede e ti punisce in maniera più netta rispetto al passato. Lo sport sta evolvendo anche in termini di fisicità e questo ne è il risvolto più significativo ed evidente”.
Quando poi si passa invece sul quanto e come gli Europei stiano cambiando la NBA attuale, la sua risposta è secca: “Sabonis, Drazen, Marciulionis e Kukoc erano già in NBA con un ruolo significativo quando c’ero io, oggi vediamo un gioco più internazionale, senza barriere, aperto a tutti, e questo è importante, ha aumentato la competitività ed il talento a disposizione”.
L’ultima ma forse la più sentita delle domande, è quella che attiene al significato dello stare nello spogliatoio con giocatori della caratura di Michael Jordan, Scottie Pippen, Kobe Bryant, Dennis Rodman, Shaquille O’Neal e simili e qui la sua voce non ha bisogno di commento: “I rapporti con questi compagni sono speciali, fuori dal comune. Vedi che sono campioni ancor prima che sul campo, sanno motivarti, sanno scegliere un obiettivo e superarlo, ma sanno anche di non poterlo fare da soli e per questo cercano di ottenere sempre il meglio da chi gli sta intorno. Ti fanno migliorare e volere quel traguardo quasi quanto lo vogliono loro, vivendo sensazioni che forse difficilmente possono capitare nella vita di un atleta. Sono ricordi importanti ma anche e soprattutto amici anche nella vita attuale,non si può desiderare di meglio”.