“Dominare o essere dominati”, la storia e il viaggio di Zach LeDay

L’ex Olympiacos e Zalgiris si racconta, dal Texas a Milano in una carriera che poteva anche vederlo impegnato nel football americano.
09.09.2020 09:50 di Ennio Terrasi Borghesan Twitter:    vedi letture
“Dominare o essere dominati”, la storia e il viaggio di Zach LeDay

“Dominare” è la parola che Zach LeDay usa più spesso. Dominare non in senso letterale, ma come desiderio di imporsi e di imporre la propria forza, la propria determinazione. LeDay viene da Dallas e anche se ha giocato nella stessa scuola di Larry Johnson (prima scelta assoluta nella NBA nel1991) e per la squadra estiva di Deron Williams (ex star NBA a Utah e Brooklyn soprattutto), aveva cominciato a giocare a football. Il Texas è la patria delle “Friday Night Lights”, dei venerdì sera del football liceale. Ma gradualmente, senza perdere la sua indole, LeDay si è avvicinato al basket e non l’ha più lasciato. “Quando ero più giovane, ho provato per prima cosa il football. Quando ho cominciato a crescere, e gli altri ragazzi hanno provato anche altri sport, ho cambiato e ho praticato entrambi. Giocavo sempre, tutte e due le discipline, ma poi sono cresciuto e sono rimasto nel basket”.

-La fisicità è una conseguenza del background atletico, del football?

“La mia fisicità viene dal mio passato nel football, ma anche dal modo in cui sono cresciuto, nel mio quartiere, in una casa piena di zii e cugini, gente fisica. In generale, è un’attitudine, quella di dominare o essere dominati”.

-Dopo gli anni del liceo, poi South Florida, la svolta è arrivata a Virginia Tech.

“La mia etica lavorativa è stata sempre molto forte, ma lì sono stato in grado di sedermi con il mio coach Buzz Williams, per capire come usare la mia energia nel modo giusto, come metterla al servizio della squadra invece che disperderla, e poi come usare la mia grinta, la mia presenza per dominare e aiutare la squadra a vincere. E poi capire certi ritmi, essere più intelligente in campo: il resto l’ha fatto l’esperienza che mi ha permesso di crescere e migliorare”.

-A Virginia Tech era il miglior giocatore della squadra ma partiva dalla panchina.

“Non l’ho mai chiesto, ma ho imparato ad adattarmi a qualsiasi ruolo gli allenatori pensino per me. Ero il giocatore di riferimento, ma volevo anche dimostrare ai compagni che sono altruista, che posso adeguarmi ad ogni ruolo, non importa se titolare o riserva, e potevo lo stesso dominare, giocare il più duro possibile e fare tutto quello che serviva per aiutare la squadra a vincere”.

-Da “undersized” cosa serve per emergere a dispetto della stazza?

“Devi giocare duro, sempre, e fare le piccole cose che gli altri non faranno. Si tratta di sfruttare i punti di forza e usarli per dominare l’avversario, fare quanto possibile per girare attorno agli avversari più grossi o superare gli altri. La chiave è usare le cose che fai meglio, migliorare i propri difetti, ma soprattutto contare sui tuoi punti di forza per aiutare la squadra”.

-La stagione all’Hapoel Gilboa Galil l’ha lanciata ad alto livello.

“Ho avuto grandi compagni di squadra, veterani esperti che mi hanno preso sotto la loro ala. Il mio primo anno era anche la mia prima volta fuori dagli Stati Uniti. Avevo un allenatore (Ariel Bet Halahmi, ndr) cui piaceva giocare veloce, avanti e indietro, quel tipo di basket, ci siamo trovati bene e siamo stati in grado di fare cose speciali. Durante la stagione abbiamo avuto una striscia vincente importante, abbiamo battuto squadre forti, ottenuto il massimo. Non siamo mai andati così bene in 10 anni e cambiato un po’ la storia del club”.

-Il salto in EuroLeague è stato duro?

“Quello di cui sono orgoglioso è la mia capacità di adattarmi a ruoli differenti e continuare a fare quello che faccio meglio e garantisco alla squadra. Questo è quello che è successo quando sono andato all’Olympiacos e ho imparato dai veterani, mi sono adattato al ruolo, ma avevo solo 24 anni e quello che dovevo fare era imparare, adeguarmi in corso d’opera, velocemente, imparare le posizioni, sviluppare velocemente una certa chimica e al tempo stesso produrre”.

-A Milano cosa può imparare dal miglior “undersized” di sempre, Kyle Hines.

“Posso imparare tanto, posso imparare ogni giorno qualcosa, solo guardando a come si comporta, cerco anche di parlargli a parte, di farmi dire le cose che vede in campo e anche quando siamo fuori dal campo. Quando siamo fuori gli chiedo di segnalarmi le piccole cose importanti. Quando giochi con gente che ha vinto, come Kyle, Chacho, Gigi, impari qualcosa di nuovo ogni giorno, vedi come giocano, le loro qualità e naturalmente ti entra in testa quello che puoi fare. Loro sono stati in grado di vincere per anni ai massimi livelli”.

-Nel suo repertorio sta inglobando il tiro da tre.

“Ci lavoro incessantemente ogni giorno, ci lavoro ogni estate, cerco di fare un passo avanti ogni anno, cerco di continuare a lavorarci, dedicandoci tempo, dedicandoci ore, correggendo gli errori, facendo quello che devo fare per aprire il campo, integrarlo di più nel mio gioco ogni anno”.