La storia infinita del 15 a Milano: il primo interprete fu Bill Bradley

La storia del numero 15 dell’Olimpia è talmente ricca di campioni, storie, aneddoti da richiedere due puntate. Ecco la prima.
02.05.2020 12:00 di  Ennio Terrasi Borghesan  Twitter:    vedi letture
La storia infinita del 15 a Milano: il primo interprete fu Bill Bradley

La storia del numero 15 dell’Olimpia non è antica come quella del numero 8 che apparteneva già a Sandro Gamba o del 9 che fu persino di Cesare Rubini, nemmeno del 7 di Pieri, del 6 di Vianello o il 10 di Riminucci. Ma diciamolo pure, il 15 è un numero speciale. Storicamente è sempre stato un numero per americani. Sarà un caso, ma il primo 15 della storia dell’Olimpia faceva l’americano di Coppa, cioè giocava solo nella competizione internazionale dove i due stranieri erano consentiti. Arrivò nell’estate del 1965, fresco di laurea a Princeton, prima scelta dei New York Knicks, olimpionico a Tokyo 1964 e oro alle Universiadi di Budapest. Proprio in Ungheria venne convinto a fare il pendolare da Oxford a Milano per le partite di Coppa. Si chiamava Bill Bradley. Avrebbe vinto con l’Olimpia alla Coppa dei Campioni di Bologna nel 1966, da grande protagonista e perfettamente inserito nel contesto di squadra. Bradley ha poi giocato tutta la sua carriera nella NBA a New York vincendo due titoli NBA e conquistando il pass per la Hall of Fame. La sua maglia numero 24 è stata ritirata dai Knicks. Una curiosità su Bill Bradley: i suoi 26.5 punti di media nella Coppa dei Campioni del 1965/66 sono ancora la media più alta di un giocatore dell’Olimpia nella massima competizione europea davanti ai 25.8 di Bob McAdoo spalmati però su tre stagioni e un numero triplo di presenze.

Via Bradley, l’anno seguente il numero venne indossato sempre da Steve Chubin, newyokese di Forest Hills, uscito nel 1966 dall’università del Rhode Island. Chubin giocò una memorabile finale di Coppa dei Campioni a Madrid contro il Real segnando 34 punti. La sconfitta del Simmenthal ha relegato nell’ombra dei ricordi una prova fantastica e non l’unica, tanto che bebe 22.5 punti per gara in Coppa. A fine stagione lasciò Milano (vinse lo scudetto con 20.8 di media, primo scorer di squadra) per andare a sfondare nella ABA, prima ad Anaheim poi in altre squadre inclusi i New York Nets e gli Indiana Pacers. A fine carriera spese un ulteriore anno all’estero, al Maccabi Tel Aviv e tornò a Milano in Coppa delle Coppe da avversario.

Il successivo grande 15 dell’Olimpia fu Mike Sylvester. Il leone di Cincinnati rappresentò per l’Olimpia una figura centrale perché di fatto arrivò a Milano sulle ceneri della grande squadra dei primi anni ’70 che non esisteva più. Da oriundo fece tutta la trafila che lo avrebbe portato a giocare da italiano. Nel 1975 giocò solo da straniero di coppa e aiutò la squadra a vincere la Coppa delle Coppe nello stesso anno in cui la squadra senza di lui retrocesse. Poi vinse la A2, fu membro della Banda Bassotti che riportò Milano in finale scudetto e venne ceduto a Pesaro nel 1980. Ironicamente, giocò una finale proprio contro Milano nel 1982 e fu stoppato nel tiro della potenziale vittoria a San Siro da John Gianelli. E Gianelli indossava… il 15.

Gianelli arrivò a Milano quasi casualmente. Nell’estate del 1980, Dan Peterson sognava il colpo Kevin McHale che non aveva l’accordo con i Boston Celtics e venne a Milano a trattare con il Billy. Quando McHale stava per firmare, i Celtics cedettero e lo accontentarono. Con il via alle porte, Milano ripiegò su Gianelli, che era nella parte finale di una carriera in cui aveva vinto anche il titolo del 1973 a New York. Per un po’ fu criticato a Milano perché l’atteggiamento posato, che non tradiva emozioni, veniva scambiato per indifferenza. Invece Gianelli era giocatore di rara intelligenza, un lungo bianco che giocava due ruoli, difendeva come uno scienziato e usava le mani per fare il playmaker aggiunto e il tiratore dalla media. Timbrò la stoppata-scudetto su Sylvester nel 1982. Dan Peterson ricorda che, convocato d’urgenza al suo arrivo perché gli venissero mostrati gli schemi della squadra, “John anticipava ogni movimento successivo perché capiva cosa avremmo fatto”. Gianelli fu anche l’unico probabilmente a giocare bene la finale di Coppa dei Campioni del 1983, quella persa contro Cantù e che ancora oggi turba le notti di Dino Meneghin. Restò tre anni a Milano.

Il 15 passò direttamente da Gianelli a Earl Cureton nella stagione 1983/84. La storia di Cureton – che tornò poi a fine carriera ma con minor successo – è una delle più misteriose nella storia dell’Olimpia. Cureton, che veniva dalla NBA e aveva vinto il titolo con Philadelphia pochi mesi prima, era stato portato in Italia da Pesaro. Ma aveva mostrato problemi di adattamento, aveva un carattere difficile: la Scavolini lo tagliò per non correre rischi. Milano non aveva ancora scelto il suo americano, si sentiva forte e decise di prenderlo. Cureton non era un talento, ma rese la difesa impenetrabile e a rimbalzo era incontenibile. Con lui, la Simac vinse tutte le partite, ma non arrivò oltre metà novembre. Una mattina Cureton scappò da via Caltanissetta e salì sul volo per gli Stati Uniti debuttando poche ore con Detroit. L’Olimpia rispose prendendo il rookie che i Pistons non erano riusciti a firmare, Antoine Carr. Carr indossò il 15 come Cureton, ebbe una stagione spettacolare prima di diventare un eccellente giocatore NBA (due finali a Utah), migliore di Cureton. Ma nel 1984 era un ragazzino di 22 anni. Milano quell’anno perse la finale scudetto contro la Virtus Bologna e la finale di Coppa delle Coppe contro il Real Madrid, giocandola però senza Carr (a quei tempi in coppa non era permesso cambiare il roster durante la stagione).