Il rebuilding process dei "non vincenti" New York Knicks: Perry & Ntikilina

Una squadra piena di giovani e che aspetta gli sviluppi della trade che potrebbe riguardare Carmelo Anthony
14.08.2017 21:00 di  Domenico Landolfo   vedi letture
Il rebuilding process dei "non vincenti" New York Knicks: Perry & Ntikilina

Senza voler essere necessariamente troppo nefasti, quando la notte del 22 giugno scorso i New York Knicks hanno “skippato” la possibilità di prendere al draft Dennis Smith jr e Malik Monk, scegliendo un Frank Ntikilina che aveva già il biglietto per l’aereo e la finale con lo Strasburgo meno di 24 ore dopo, di certo la solita mandria dei cronisti newyorkesi aveva avuto inchiostro con cui continuare a parlare di squadra allo sfascio. Ipotesi che sono state avvalorate sia dal fatto che il francesino si è infortunato prima della Summer League e non ha nemmeno debuttato, ma anche perché gli altri due nel giro han già dimostrato di essere due pezzi pregiati. Sarà ancora la scelta sbagliata?

La verità non è sempre nitida e cristallina come la si vorrebbe far passare, e tra Phil Jackson mandato via, i tanti nomi come Gm, le incertezze di Carmelo Anthony ed i dubbi amletici danesi (che sarebbero in tutta verità lettoni) di Porzingis, di certo il campo è stato uno degli ultimi problemi della franchigia della Grande Mela che si presenta al prossimo training camp con tanti dubbi sul groppone, anche perché alcune delle situazioni di cui sopra e specie quella riguardante il prodotto di Syracuse, potranno sconvolgere e non poco l’assetto e le aspettative di una franchigia che non vince da secoli.

Quello che la storia degli ultimi anni ha insegnato, una tradizione perdente, è che ogni qual volta sono arrivate delle superstar nella città delle luci alla fine non si sia mai raggiunto nulla. Stoudemire, Marbury e Rose, da ultimi, sono stati quei giocatori che nel rapporto qualità e guadagno han fatto pesare la bilancia sulla seconda voce, senza mai portare alcun alloro. Con le firme di Ntikilina in cabina di regia e di Scott Perry nella stanza della dirigenza, sembra essere l’inizio di un low profile, di un cambio della guardia. Sarà la città più nell’occhio del ciclone sopportare un’inversione di tendenza del genere?

La squadra costruita, al momento, non è giudicabile in concreto, ma ha una certezza, un’età giovane, prospetti interessanti e giocatori che hanno fame. Certo, si costruisce tutto intorno a Porzingis, è stato ripagato a peso importante Tim Hardaway jr, che già conosce l’ambiente, c’è un Hernangomez che può essere un futuribile All Star, ma tutte queste variabili non sono prevedibili, in quanto possono rappresentare una polveriera, perché a far crescere le aspettative questi ragazzi potrebbero subire la pressione, mentre sul fronte opposto, a volerli screditare troppo, si finirebbe col tarpare loro le ali. Perry è quell’uomo che aveva portato una giovane Orlando alle Finals nel 2004, che cercava e scopriva talenti, può fare bene, tuttavia c’è un grosso ma che incombe sulle teste Knicks…

Se la trade di Carmelo, quand’anche arrivasse Kyrie Irving, scompigliasse di nuovo le carte, quello che può essere un buon presupposto di ricostruzione andrebbe a farsi benedire. Paradossalmente, arrivasse qualche altro futuribile prospetto da Houston, le cose potrebbero anche migliorare, tuttavia la considerazione dei cronisti newyorkesi sulla non imminenza nel voler cedere Carmelo in questa fase di preaseason, potrebbe avere un valido fondamento. Tutti i progetti di costruzione poggiano intorno a qualcuno che abbia visto e sentito il campo, gli stessi Spurs solitamente, aggiungono o giocatori dei loro progetti passati a fine carriera (vedi quello che è successo con David Robinson o Stephen Jackson) per fare gruppo, mostrare l’esempio, ed è qui che Carmelo potrebbe diventare esempio un per queste tante rising stars per crescere e migliorarsi, per trovare la giusta dimensione e anche per sgravarli di quella tensione magari in una fase decisiva di una gara, quando sarebbe magari (e lo farà comunque) lui a prendersi la responsabilità del buzzer.

Non dimentichiamoci che New York costruisce per vincere, ma tendenzialmente negli ultimi 15 anni di NBA solo quando non se la aspettava nessuna (nei primi mesi di Stoudemire e in quelli con Kidd in panca e Sheed in campo per intenderci) ha saputo dimostrare numeri significativi, e servirebbe tornare con gli annali alle stagioni in cui un altro reietto, uno che non avrebbe dovuto dare nulla a questa squadra, ossia Latrell Sprewell, aveva preso in mano Madison Square Garden e compagni, fino a quella finale della stagione del lockout che ad oggi è l’ultimo acuto di una squadra che vive ancora, forse troppo, di istantanee in bianco e nero. Quindi ben venga una squadra di cui si parla poco, dove i Courtney Lee, i Thomas, i Kuzminskas sono solo nomi che non passano sullo scout.

Forse, parafrasando il baseball, questa non è una moneyball, di quella del film di Brad Pitt, ma può essere quel giusto compromesso per costruire un progetto vincente che prescindendo dai nomi sappia farsi trovare pronto alla chiamata del parquet e di un pubblico che non smetterà mai di sostenere i suoi inguaribili “non vincenti”.