I "Momenti" di Dino Meneghin e perché ha sempre giocato con l'11

A poco più di una settimana dal ritiro della maglia numero 11, un excursus sulla leggendaria carriera del nativo di Alano di Piave.
11.11.2019 13:08 di  Ennio Terrasi Borghesan  Twitter:    vedi letture
I "Momenti" di Dino Meneghin e perché ha sempre giocato con l'11

Istantanee. Momenti. Frammenti di gloria. Ogni campione ha avuto il suo “Momento”.  Dino Meneghin ebbe il suo, anzi ne ebbe molti, ma a Losanna il 2 aprile 1987 contro il Maccabi, la Coppa dei Campioni inseguita da anni, da un gruppo che cercava la convalida internazionale, il numero 11 dell’Olimpia sentì le gambe cedersi sul lay-up che avrebbe certificato la vittoria, “un sollievo per me che quattro anni prima a Grenoble, contro Cantù, la stessa coppa in palio, giocai la peggior partita della mia vita e ancora adesso la soffro”. Solo che Meneghin sbagliò il lay-up, non perché fosse persino troppo facile, ma perché era infortunato e dopo 40 minuti di battaglia non aveva più nulla nelle gambe. Esplosero i crampi. Meneghin lungo sul parquet ad allungare i muscoli, a caccia non tanto di sollievo, ma degli elettroliti necessari per finire la partita. Per rialzarsi. Difendere. Salvare il risultato. Meneghin è un tipo brillante, divertente, che non si prende mai sul serio. E’ sempre stato così. Ma in campo, in campo era un guerriero senza macchia, senza paura, il più duro dei duri. Si rialzò. Quell’immagine da guerriero ferito che si ribella alla sorte, al dolore, alla fatica rappresenta tutto Meneghin.

Il 19 novembre la maglia di Dino Meneghin verrà ritirata dall’Olimpia Milano, la squadra con cui ha vinto cinque scudetti, due Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale, una Coppa Korac, due Coppe Italia. La cerimonia si svolgerà durante l’intervallo della partita con il Maccabi, rivale storica alla quale Meneghin è sempre stato legato da stima reciproca. “Con loro ho un feeling particolare, che dura da 50 anni. La prima volta che li ho incontrati è stato nel 1966 o 67, a Tel Aviv. Giocavano in questo palazzo, che poi era un’arena all’aperto, con le piastrelle sul pavimento, le panchine un po’ sottoterra, come nel calcio. Da allora li ho incontrati quasi ogni anno, con Varese, Milano, con la Nazionale. Ho sempre apprezzato signorilità, sportività, organizzazione, voglia di fare bene, questo spirito un po’ americano di creare sempre qualcosa di importante. Per loro io rappresentavo una persona che lottava, che non si arrende e cerca sempre di dare il meglio. Sono orgoglioso dell’amicizia che mi lega a loro ed è proseguita dopo il ritiro. Quando hanno onorato Miky Berkovitz hanno invitato un gruppo di vecchie glorie, tra cui il sottoscritto. Mi lasciarono entrare per ultimo e ricevetti un’ovazione che mi ha commosso, eppure non giocavo da anni. Quella sensazione me la porto nel cuore”.

Dino Meneghin ha trascorso tutta la sua carriera con il numero 11, che lo identifica. “Nel 1965 giocavo in Serie B alla Robur et Fides. Nell’Ignis c’era un giocatore, si chiamava Toby Kimball, un bianco con un bel fisico. Solo che andò via e mi dissero, “dai prendi l’11”. Non mi hanno detto di scegliere, avevo 16 anni e non potevo scegliere nulla. Così l’ho tenuto, mi piaceva, e poi negli anni mi sono accorto che tanti grandi centri europei giocavano con l’11. Cosic, Tkachenko, il bulgaro Golomev, il ceko Zidek. Mi piaceva, ma sembrava quasi fosse il numero dei centri in Europa”.

Nel 2003, Meneghin è diventato membro della Hall of Fame di Springfield, la culla del basket. “E’ stata un’esperienza straordinaria, che devo a Dan Peterson. E’ stato lui l’artefice, si era occupato di tutto quello che serviva per presentare la candidatura, la selezione è durissima. Bisogna andare a Springfield per la cerimonia e io ero in Svezia con la Nazionale. Dovevo essere accompagnato, ma mia moglie ha paura e non vola, mio fratello non poteva lasciare il lavoro, Andrea era in Nazionale. Allora invito Dan e insieme scriviamo il discorso. Arrivati all’aeroporto, arriva un tipo che ci porta i bagagli, poi arriva una limousine bianca. Ho detto al Coach che stava arrivando qualche attore, invece era lì per noi! Salgo sul palco e c’è Bob McAdoo che fa la mia presentazione: io e Dan Peterson avevamo un discorso. Ma Bob dice le stesse cose che volevo dire io!!! Alla fine me ne sono fregato. Lì davanti – prosegue – avevo davanti James Worthy, Robert Parish, Bill Walton, Larry Bird, George Gervin. La mia paura, un terrore, era che arrivasse qualcuno e mi dicesse “Sorridi, sei su Scherzi a parte”. Quando è finita, ho tirato un sospiro di sollievo”.

E ora ci sarà un’altra cerimonia, quella del ritiro della maglia da parte dell’Olimpia: “Vedere l’11 sulle spalle di qualche giocatore mi ha sempre fatto piacere, mi ricordava quando giocavo io. Ma vederla ritirare, lo considero un orgoglio, un privilegio riservato a pochi, che mi onora. E’ un privilegio che va a me ma idealmente a tutti quelli che mi hanno accompagnato. Un po’ come a Springfield: c’è la mia brutta faccia attaccata al muro, però idealmente ci sono tutti quelli che in questo treno che ha percorso tutti questi chilometri sono stati con me. E’ un po’ il punto finale della mia carriera. Nessuno è più degno di vestirla? Non è così, ma se pensi alla storia dell’Olimpia dovrebbero ritirare tutte le maglie dal 5 in avanti, visto che il 4 non lo usiamo”.