Sergio Rodriguez: la storia da Tenerife a Milano, con tanti successi

Un profilo del giocatore spagnolo, grande protagonista dell'inizio di stagione dell'Olimpia Milano in Europa e in campionato.
27.11.2019 20:00 di Ennio Terrasi Borghesan Twitter:    vedi letture
Fonte: Olimpia Milano
Sergio Rodriguez: la storia da Tenerife a Milano, con tanti successi

Sergio Rodriguez passerà alla storia come uno dei più grandi playmaker europei della sua generazione. Su questo sono tutti d’accordo e nulla potrà modificare la realtà. Nella porzione di carriera che ha avviato quest’anno a Milano, “El Chacho” potrà solo ingigantire il suo status. In piccola parte l’ha già fatto vincendo il primo titolo di MVP del mese (in ottobre): può suonare strano, ma Sergio che pure è stato MVP di una stagione intera (2013/14) non era mai stato prima d’ora MVP del mese. Probabilmente, era l’unico riconoscimento che non aveva mai ricevuto.

Sergio viene da Tenerife, nella Isole Canarie: non è esattamente il posto in cui ti aspetti di veder sbocciare un giocatore di talento generazionale. Rodriguez non è un giocatore fisico, è veloce, ma non più veloce di tanti altri ed è diventato un tiratore con il tempo, perché questa non era la sua caratteristica principale quando ad esempio fu scelto a 20 anni al primo giro dei draft NBA. Rodriguez è genio, visione di gioco, energia, passione per quello che fa. A 33 anni, con una carriera leggendaria già alle spalle, a livello di club e a livello di Nazionale (è stato campione del mondo e argento olimpico), è lontano dal sentirsi appagato: non deve spiegare perché, si vede da come gioca, l’entusiasmo con cui gioca, l’interesse che riserva ai compagni, l’impegno in allenamento, la serietà che usa in ogni momento della sua giornata. “Lavoro e mi sacrifico per vincere le partite e divertirmi, se non vinci non ti diverti”, dice ricordando di aver sempre ammirato giocatori vincenti che si entusiasmavano giocando. Alcuni nomi: Jason Williams, the White Chocolate lo chiamavano nella NBA a Sacramento e Miami dove ha vinto un titolo, poi Allen Iverson, Michael Jordan e da questa parte dell’Atlantico anche Raul Lopez (che ha giocato tanto anche nella NBA) e Aleksandar Djordjevic.

E’ nativo di Tenerife, ma tifa da sempre per il Real Madrid. A casa sua era così, ma non dappertutto alle Canarie. Real Madrid-Barcellona è rivalità sentita anche sull’isola. Nel 2001, si trasferì da Tenerife a Bilbao.  Nel 2003, a 17 anni, andò a giocare proprio a Madrid, ma all’Estudiantes e di lì a poco avrebbe debuttato nel massimo campionato spagnolo contro il Barcellona. Successe in finale per il titolo. Lui era già tornato a casa, in vacanza: lo chiamarono perché si fece male Corey Brewer lo straniero. Lui era in panchina quando il playmaker spagnolo Nacho Azofra, nel tentativo di rubare palla sul pressing finale, commise un fallo su Juan Carlos Navarro – sempre a proposito di leggende – e uscì per falli. Rodriguez andò in campo e di lì a poco segnò anche il primo canestro della carriera, in penetrazione, in reverse. Da allora, non si è più fermato. Debutto in EuroLeague, giovane dell’anno nella ACB e nel 2006, con due anni di anticipo sull’età canonica, entrò nel draft NBA. Venne scelto al primo giro da Phoenix che lo girò subito a Portland. Era il draft di Andrea Bargnani.

A Portland, rimase tre anni. Portava i capelli rasati e non aveva la barba. Quel Rodriguez sarebbe nato un po’ di tempo dopo: a Mykonos in vacanza, nel 2012 dopo l’argento olimpico di Londra. “C’era tanta gente che portava la barba lunga e me la feci crescere anche io. Mi stava bene e l’ho tenuta”, la spiegazione. Dopo i Blazers, entrò nel calderone delle varie trade che ogni anno sconvolgono la NBA. Si ritrovò a Sacramento e poi a New York, dove lo allenò per qualche mese Mike D’Antoni. Era molto giovane e avrebbe potuto rimanere in America. “Ho giocato nell’arena più famosa del mondo, Il Madison Square Garden, forse non sono arrivato a New York nel momento migliore, ma mi sono divertito lo stesso, è stato speciale”, ricorda. Ma da Madrid lo chiamò Ettore Messina e lui scelse di tornare a casa. In Spagna. Nell’amato Real Madrid.

Ad accompagnarlo, ha sempre avuto il numero 13, ma senza motivi specifici. “La prima volta che dovetti scegliere un numero, quello era l’unico rimasto. Da allora è diventato la mia prima scelta, qualche volta l’ho trovato occupato o nella NBA magari l’aveva ritirato come a Philadelphia dove era il numero di Wilt Chamberlain. Se non ho il 13 di solito vado sul 6”, racconta del numero che ormai lo identifica.

Nel 2014 fu MVP di EuroLeague, nel 2015 proprio a Madrid vinse la sua prima EuroLeague e intanto la leggenda della generazione d’oro del basket spagnolo, nata e cresciuta all’ombra di Pau Gasol, conquistava un successo dietro l’altro. Nel 2016, a contratto finito, Sergio lasciò il Real Madrid dove tra l’altro si era adattato a partire dalla panchina dietro Sergio Llull, un altro fenomeno. Inaspettata arrivò la decisione di tornare nella NBA, questa volta da giocatore maturo, affermato, da uomo sposato, con la barba e incorniciare il volto e i capelli riccioli non più rasati. Un anno ai Sixers, a traghettare la squadra verso l’era Ben Simmons, poi il ritorno in Europa. Al CSKA Mosca. “Sono stato fortunato, ho avuto la possibilità di giocare ai massimi livelli, in paesi stranieri, espormi a culture differenti”, dice. A Mosca ha vinto la sua seconda EuroLeague, lo scorso anno, da protagonista soprattutto in semifinale, proprio contro il Real Madrid.

E adesso Milano: “L’ho scelta per avere la possibilità di continuare a giocare in EuroLeague al livello più alto, fare un’altra esperienza in una lega locale differente come la Serie A e far parte di una organizzazione storica. L’Olimpia fin dall’inizio della off-season è stata uno dei club che avevo individuato, sono contento che sia stato possibile venire qui”.