Desiderare un basket che non ha paura di parlare di futuro

La Serie A è l’unico massimo campionato italiano che ha già fissato le date per il 2020/21. È il momento di avere una visione più coraggiosa sul futuro.
21.05.2020 15:05 di  Ennio Terrasi Borghesan  Twitter:    vedi letture
Desiderare un basket che non ha paura di parlare di futuro

Avviso al lettore: quello che segue è un editoriale di commento, che riflette esclusivamente l’opinione dell’autore.

La prima premessa che occorrerebbe precisare, quando si parla della situazione sanitaria ed economica attuale e dei suoi effetti sul mondo dello sport, è che non esistono metri di paragone. E non possono esisterne. Perché stiamo vivendo un anno che cambierà per sempre la storia del mondo. Sembra una premessa banale, ma non lo è. Leggere, ascoltare, vedere opinioni che elencano ricette ‘convenzionali’, conservatrici e tradizionali -pur circondate da un’aura di progressismo apparente- può sembrare rassicurante, perché in una direzione o nell’altra assistiamo alla trascrizione di un pensiero che condividiamo e in cui quindi ci possiamo rifugiare.

In condizioni di una normale crisi economica e sociale potrebbe anche avere senso il continuo rincorrersi di dicotomie e visioni sul numero delle squadre di un campionato, o sul numero di giocatori stranieri o italiani da mettere in campo. Quello che però andrebbe precisato ogni giorno è che non stiamo vivendo una situazione normale, o quantomeno per la quale può esistere una sorta di manuale di istruzioni.

Il basket italiano, durante una pandemia senza precedenti, si è certamente distinto rispetto alle altre discipline tricolori. Per primo, e in maniera pubblicamente compatta, ha annunciato la fine della sua stagione 2019/2020, mettendosi a pensare alla stagione 2020/2021 già a partire da fine marzo, dai momenti in cui ogni telegiornale era colmo esclusivamente di notizie sul Coronavirus. A osservare la situazione attuale, in cui uno sport che non si è fermato come il calcio (che con il basket di Serie A condivide lo status di lega professionistica) sta provando a programmare una ripresa nel breve periodo dell’attività dopo un progressivo calo dell’emergenza sanitaria, si potrebbe giudicare oggi -come anche due mesi fa- la decisione unanime di FIP e LBA (per restare all’area professionistica del movimento cestistico) come affrettata. È certamente possibile farlo, ma allo stesso tempo va anche sottolineato come a fine marzo, nel prendere una decisione, le autorità cestistiche italiane non abbiano avuto paura di pensare e parlare di futuro.

È altrettanto plausibile dire che la stessa sensazione sia ricavabile dai verdetti dell’Assemblea di Lega di venerdì scorso, che ha decretato il ritorno al piano originario previsto per la stagione 2019/20 -la Serie A a 18 squadre- indicando in Torino la società prescelta per completare l’organico delle future 18 squadre, con la scelta che è arrivata per mezzo di un Ranking stilato da LBA col contributo di LNP, come si è potuto leggere nei giorni successivi.

Parallelamente, da venerdì sera, si affiancano le dietrologie sui motivi della scelta affrettata -perché antecedente alla data del 15 giugno, indicata come deadline per richiedere il riposizionamento in un campionato inferiore- e sulla preferenza di Torino nei confronti di Ravenna, come i piemontesi primi nel proprio girone di Serie A2 al momento della sospensione del campionato ma con più vittorie all’attivo (20 in 25 partite i romagnoli, 18 in 26 i piemontesi).

Andrebbe però sottolineato un aspetto, prima di addentrarci in una discussione più ampia sul punto. In una stagione prima sospesa e poi cancellata per cause di forza maggiore, è improprio parlare di “merito sportivo”, ancor di più se ci riferiamo a un campionato che non garantiva un premio alla squadra prima classificata nel suo girone -come la Serie A2 dello scorso anno- ma solamente un migliore posizionamento nel tabellone playoff. Quando non ci si può rifare (esclusivamente) al merito sportivo per stabilire una graduatoria, quindi, bisogna pensare a metodi alternativi. I criteri del Ranking utilizzato per scegliere Torino, rivelati dalla Gazzetta dello Sport, hanno ordinato più squadre per determinare chi potrebbe essere in grado di sostenere -economicamente, socialmente, logisticamente- l’attività di una squadra di Serie A. Del Ranking non sappiamo molto altro (e ne dovremmo sapere di più), ma penso sia abbastanza oggettivo come il messaggio di fondo sia chiaro e non “ad squadram”.

Per quanto riguarda il numero delle squadre del prossimo campionato, è comunque chiaro come non esista una soluzione ideale o un numero perfetto, che in ogni caso scontenterà qualcuno. Troppe squadre portano a un livello più diluito del talento e a maggiori squilibri competitivi; poche squadre a minori incassi da pubblico e da diritti TV. Nel comprendere che non esiste un piano ideale, sarebbe utile precisare che le decisioni di cui parliamo sono state prese dai club, insieme. Sia da quelli che identifichiamo come ‘virtuosi’ e progressivi, sia da quelli che qualcuno potrebbe indicare come ‘zavorra’ (possibilmente nel mezzo di un discorso sull’importanza del merito sportivo). Gli stessi club che hanno deciso di affidarsi, all’unanimità, ad una figura diversa come Umberto Gandini -capace di pronunciare parole rivoluzionarie come il “non è obbligatorio giocare in Serie A"- hanno per ora deciso di disputare la prossima stagione a 18 squadre, partendo da una lunga Supercoppa, senza aspettare -come i campionati LNP- le porte interamente aperte al pubblico.

Non hanno avuto paura di pensare al futuro, a costo di mettere alcuni di loro davanti alla difficoltà di potere sostenere le spese di un campionato professionistico e alla necessità di chiedere pubblicamente aiuto. È possibile che le squadre che hanno lanciato appelli negli ultimi giorni (Pesaro, Roma, Cremona) siano destinate a crescere di numero, ma questo è anche un effetto del tanto desiderato -pubblicamente- cambiamento. “Giocare in Serie A non è obbligatorio”, e dovrà essere sostenibile: oggi è lecito pensare che la Serie A stia lavorando affinché chi scenderà in campo a fine agosto potrà permettersi di farlo anche ad aprile, a maggio, a giugno. Senza molte più certezze sul futuro di quante ne abbiamo oggi. E questo è un altro esempio di non avere paura di pensare al futuro.

Si può e si deve andare oltre. Partendo da una grande incognita come il pubblico nei palazzetti, un problema che forse viene ingigantito eccessivamente: osservando i bilanci relativi alla stagione 2018/19 di 9 club di Serie A (il campione comprende sia squadre di alta che di bassa classifica), si osserva come i ricavi da ticketing sono compresi in una forbice tra il 9.8% e il 30.8% dei ricavi complessivi. Introiti andranno a calare fortemente -se non mancare del tutto- nella prossima stagione, introiti che solo in parte possono essere sostituiti da un aumento dei ricavi da Diritti TV (o da Sponsor, altra voce destinata a calare). Come si può andare oltre? Provando ad adottare formule nuove, che possano anche sfruttare la tecnologia e offrire un prodotto diverso al pubblico. L’iniziativa di Sassari, con la Dinamicard 3D, può essere un primo tentativo, perché da parte dei club di Serie A ci vorrebbe maggior coraggio e visione futura nel proporre nuovi contenuti e, di conseguenza, nuove fonti di ricavi.

Il coraggio e la visione, infine, occorrerebbero anche nell’affrontare il futuro dei giocatori italiani. Si parla tanto del numero di italiani a referto, della conseguente necessità (?) di diminuire il numero di giocatori stranieri. Si dovrebbe parlare di più, se non iniziare a farlo da zero, dello stato dei settori giovanili, del fatto che le squadre iscritte a campionati nazionali siano “obbligate” ad avere squadre giovanili e quindi a svolgere un’attività che può essere vista come un obbligo e una fonte ulteriore di costi più che come una volontà (si pensi, ad esempio, alla cancellazione del campionato Next Gen per i costi ‘ingenti’, alla situazione degli allenatori delle giovanili che spesso non sono degnamente retribuiti per il loro lavoro). Un sistema di questo tipo non favorisce la nascita e lo sviluppo di talenti, a meno di realtà che appaiono come isole felici. Non è quindi sorprendente che sempre più giocatori italiani decidano di andare all’estero, in NCAA o in altri campionati europei. Non è nemmeno sorprendente che un giocatore italiano che va all’estero tenda a migliorare di più e a crescere più velocemente di un coetaneo italiano.

Come si può fattivamente pensare di risolvere questa situazione? È difficile pensare, su due piedi, a riforme di lungo periodo, specie in tempi di incognite dal punto di vista economico. Nel breve, ritornando alla Serie A, si può estendere l’incentivo all’utilizzo dei giocatori italiani che attualmente esiste (riconoscendo un premio economico a chi fa giocare di più i giocatori italiani Under 28 e Under 25, limitando allo stesso tempo il numero di stranieri a 5) ma allo stesso tempo rendendo tale incentivo meno protezionistico di una categoria sull’altra (italiani su stranieri) e più effettivamente premiante.

Posto che per quanto riguarda i giocatori extracomunitari vi sia un limite che prescinde dalle regole FIP (i visti che il CONI assegna al basket come agli altri sport annualmente), si potrebbe ad esempio pensare di concedere, a chi vuole schierare 8 o 9 stranieri a referto, la possibilità di farlo, previo pagamento di una tassa, da destinare poi invece a chi fa giocare più italiani, anche seguendo la metodologia attualmente in vigore. Sarebbe davvero utile limitare ancor di più il margine di manovra delle squadre di Serie A in un momento d’incertezza e dubbi? Il concetto “Giocare in Serie A non è obbligatorio” andrebbe anche esteso ai giocatori italiani, che da regole protezionistiche e conservatrici non possono veramente trarre benefici in un contesto come quello contemporaneo.

Ci vuole coraggio per continuare a parlare di futuro, e per pensare al futuro, in un periodo in cui è tutto incerto. Perché non affiancare a questo coraggio uno spirito propositivo e realmente innovativo, per desiderare un basket capace veramente di cambiare?