Non solo Europa ed NCAA, come i prospetti dalle minors cambiano l'NBA

Le riflessioni seguenti alle recenti firme che han fatto da coro alle prestazioni della Summer League di Las Vegas
20.07.2017 21:04 di  Domenico Landolfo   vedi letture
Non solo Europa ed NCAA, come i prospetti dalle minors cambiano l'NBA

I dati che sono emersi dalla Summer League di Las Vegas, sono stati inequivocabili nel dire che la NBA non solo riesce ad arricchirsi grazie ai tanti prodotti che arrivano dal draft, che sono comunque soggetti alla supervisione, durante il percorso universitario e/o liceale, da parte degli scout, ma anche e soprattutto a una serie di giocatori, ex undrafted o che avevano cercato fortune altrove che sta facendo la differenza. Ciò preme in direzione univoca nel voler sottolineare la crescita del movimento cestistico americano non solo nelle sue eccellenze, ma anche e soprattutto in una rete millesimata di minors che comunque non tarpano le ali di chi ha il sogno e la voglia di volersi mettere in gioco.

I contratti firmati dopo il torneo in Nevada, parlano in tal senso: Tra le sorprese, non solo i vari Lonzo, Jackson, Tatum, ma anche e soprattutto Bacon, preso al secondo giro da Charlotte, e che sfruttando l’assenza di Monk si è preso le luci della ribalta, Non è solo l’unico caso, sono infatti tante le formazioni che hanno pescato, non necessariamente in questo draft, giocatori emergenti interessanti, come Boston che ha preso Nader, dopo un anno di apprendistato, o gli Spurs che han scelto Paul, che aveva dirottato le sue ambizioni fino in Turchia, proprio quando sembrava aver perso il treno principale per il basket che conta. 

Detto questo, la crescita della ex D-League, che ora è stata interamente acquistata dalla Gatorade e ribattezzata G-League, unita ad una spinta del basso che è sintomatica della crescita del basket europeo, hanno di sicuro allargato la frontiera anche oltre il semplice giocatore di college. Non a caso, anche le franchigie Nba, che stanno pescando e non poco con i top player del vecchio continente, preferiscono mettere sotto contratto un atleta più esperto e navigato, che abbia già affrontato un basket più agonistico e meno elitario come quello di college, essendo finanche disposti a pagarlo di più se del caso.

Quando però il discorso si sposta sulla D-League, inevitabilmente si pensa a una classica lega americana in cui si tira tanto, si difende poco e uno shooter può anche dominare. Fino a qualche anno fa tali considerazioni non sarebbero state poi così peregrine, ma negli ultimi anni l’arrivo in questo campionato sia di giocatori di esperienza, vedi un Ben Gordon o un Nate Robinson per fare un esempio, sia da parte di giocatori che vogliono riprovare il sogno NBA dopo aver messo radici già in Italia, come il caso di Okaro White, ha di sicuro innalzato il tasso tecnico della competizione, con maggiore agonismo e qualche concetto difensivo in più che la fa da padrone in maniera inequivocabile.

Se dovessimo scegliere una formazione che maggiormente dimostra questo interscambio, al di là del fatto che giocatori chiamati dalla D-League possono rivelarsi fondamentali per l’economia di una squadra e non solo per sopperire alle crisi, come i casi del citato White a Miami o di Yogi Ferrell con Dallas, sono di sicuro i Los Angeles Lakers, che hanno incubato i tanti giovani usciti dalle chiamate del draft ed ora sembrano poter raccoglierne i dividendi, perché se Ball e Kuzma sono delle belle sorprese, Zubac come pivot, Hart, Blue e Williams come back up sono delle piccole cose importanti che faranno da contorno alla squadra titolare, il cui allenatore Walton, così come Nance jr, non sono altro che l’ossatura che ha reso importanti Los Angeles D-Fenders.