Anthony Davis: dall'insulto di Calipari al dominio in NBA

La vita di Davis dimostra che il lavoro paga sempre e che nessuno può fermare la forza dell'etica lavorativa e delle ambizioni.
01.03.2015 16:00 di  Simone Mazzola  Twitter:    vedi letture
Anthony Davis: dall'insulto di Calipari al dominio in NBA
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Quando in estate hanno chiesto a molti general manager e operanti dei front offices NBA su chi avrebbero puntato se avessero dovuto fondare una franchigia da zero, in molti hanno detto LeBron James, con secondi a parimerito Kevin Durant e Anthony Davis.
Probabilmente se rifacessimo la stessa domanda oggi ci sarebbero molti meno presenti nel partito di James e Durant, ma molti di più in quello di Ant.
E’ il giocatore di alto livello che ha mostrato i più grandi miglioramenti nell’ultimo periodo, diventando una stella assoluta per tutti gli appassionati, anche se ha ancora qualche problema a farsi conoscere. Un bambino dopo una partita gli si è avvicinato dicendogli: “Tu sei il mio idolo, ma mia mamma non ti conosce nemmeno”.
Non è e non sarà mai un personaggio come LeBron James, ma se non credete che diventerà il dominatore della lega tra qualche anno o proseguite nella lettura e vi ricredete, oppure potrete cospargervi il capo di cenere tra un lustro.

 

Davis nasce a South Side of Chicago a sei blocks da Murray Park, dove Derrick Rose ha gettato le basi del suo killer crossover. Questi sei isolati non potevano essere percorsi in libertà, perché il rischio d’incontrare gangster o spacciatori era molto alto. Attraversare Englewood per un piccolo ragazzo era un rischio troppo grande da correre, così Anthony decide di investire il suo tempo alla St.Colombanus High School, dove suo zio era l’athletic director.
All’inizio entra in campo durante le pause delle partite per intrattenere il pubblico, ma ben presto fa “carriera” andando a vendere i biglietti all’entrata, i nachos al pubblico o tenendo il tempo al tavolo. In cambio lo zio gli regala una chiave della palestra. Proprio in quel luogo incontra una figura importantissima della sua vita ovvero Antwan Collins, un ragazzo di dodici anni più grande che aveva appena perso il fratello in una sparatoria. “Non so perché mi affezionai a lui, -dice- forse per colmare il vuoto che avevo o forse anche per garantire a un ragazzo volenteroso, non necessariamente una carriera da giocatore professionista (non sapevo affatto cosa sarebbe diventato), ma almeno la sicurezza di potersi andare ad allenare senza alcun timore”.
Dopo i suoi allenamenti si presentò alla Perspective High School per fare la squadra ed entrare in lizza con 200 ragazzi che non avevano una palestra in cui esprimersi. Cortez Hale era il coach 25enne della squadra e accolse un Davis che inizialmente era un 6.2” in grado a malapena di battere la sorella in uno contro uno, lasciandolo poi nel suo anno da senior a 6.10" in testa ad ogni lista di valutazione della categoria. Nonostante questo il livello a cui si era espresso nella Blue Division di Chicago Pacific non era eccelso, infatti le squadre più blasonate giocavano nella Red.

Alla fine del suo anno da Junior ha una sola offerta sul tavolo ed è quella di Cleveland State. “Il piano era di andare lì -dice AD- poi provare la D-league e magari l’Europa”. Coach Jevon Mamon non volle sentir parlare né di D-League, né d’Europa perché intravedeva un grande potenziale in lui.
Alla sua prima partita a Merrilville qualcuno riprese le gesta di Davis che mise in fila: stoppata su tiro da tre e schiacciata, altra stoppata, conduzione centrale del contropiede e appoggio in traffico; il tutto in meno di trenta secondi. In poco tempo il video fa il giro del mondo rendendolo un vero e proprio personaggio la mattina seguente. Così sfrutta questo momento per rafforzare la squadra, reclutare i migliori giocatori dei playground e stimolare i suoi compagni. Al contempo compie sessioni estenuanti con il compagno Manuel Whitfield obbligandolo a schiacciargli in testa per ore. Il suo amico lo rese orgoglioso quando qualche anno dopo gli giunse notizia che in un college di Division III il suo protetto aveva schiacciato poderosamente in testa ad un sette piedi.
Oltre a una fisicità e verticalità quasi irripetibili, Davis era chiamato agli straordinari giocando da playmaker e portando in attacco la palla per iniziare il gioco. Una volta avviata l’azione stazionava intorno al ferro dove indubbiamente si trovava meglio.

Al termine della carriera scolastica arriva la chiamata che cambia la vita, quella dei Kentucky Wildcats di coach Calipari. Una possibilità incredibile per un ragazzo che non credeva di avere le capacità necessarie nemmeno per giocare in NCAA. L’inizio non è affatto semplice perché Davis, abituato a dominare negli anni precedenti, si trova davanti un muro di cemento, una nuova realtà più fisica e tecnica e fatta di una capillare organizzazione di gioco. Per questo viene pesantemente bistrattato dal suo coach. Al primo giorno di allenamento mette in mostra il peggio di sé, producendo in successione due semiganci da distanza ravvicinata dei quali uno non prende neppure il ferro e l’altro prende solo il tabellone rimbalzando malamente indietro. La reazione del Calippo non è tenera: “Se date ancora la palla ad Anthony in post basso, correte tutti per mezz’ora!”.
E’ stato un momento davvero mortificante, ma ha scatenato in lui la voglia di rivalsa. Cosi chiede all’assistant coach Kenny Payne un tutoraggio più stringente. Il primo passaggio è di togliere completamente il cibo di McDonald dall’alimentazione sostituendolo con delle normali bistecche e poi passare ore e ore a fare semiganci, finte, up and under e drop step. Da quel momento l’escalation lo porta sul tetto del college basket, guadagnando prima posizioni all’interno della squadra, per poi condurla al titolo nel 2012 come miglior giocatore. “Faceva delle cose incredibili -disse Calipari- che mi tranquillizzavano durante una partita. Un passaggio di tocco, una difesa d’intensità o un layup alla Ginobili. Era un’arma totale e sapevo che avrebbe sempre fatto la giocata giusta.”


Ovviamente nessuno lo avrebbe lasciato andare oltre la numero uno in quel draft e i New Orleans Hornets non si fecero pregare, costruendogli intorno la squadra negli anni successivi con uno stretch four come Anderson, un giocatore che potesse rifornirlo come Holiday e un centro come Asik per poterlo far evoluire anche da quattro perimetrale. Nel primo anno il suo impatto non è stato devastante, non riuscendo a incrementare la sua massa dai 215 pounds con cui era entrato nella lega.
Carlos Daniels, direttore delle athletics performances per i Pelicans, gli disse: “Dobbiamo tirar su del metallo fratello”. Sebbene il suo programma di lavoro non fosse esattamente all’ultimo grido, limitandosi a squat, leg press, e panca, si rivelò molto efficace. Alla stagione successiva si presentò 113 Kg. con il mantra di Daniels che diceva “Prendi una posizione e non mollarla più”.
Obbedì prontamente, unendo una nuova forza fisica nel gestire i contatti, alla sua solita velocità e agilità per sfuggire ai pachidermici lunghi avversari. Produce qui una stagione da All-Star e viene convocato dalla nazionale per il mondiale dove perde addirittura quattro Kg. di massa grassa diventando sostanzialmente inarrestabile dal punto di vista fisico. Al suo terzo anno di NBA si presenta in una forma smagliante, con ancor più muscoli e la solita apertura alare, più ampia addirittura di quella di Yao Ming. E in una natura che si è divertita a creare un fisico per il basket come quello di Kevin Durant, è quasi assurdo che poi abbia voluto scalpellare la perfezione costruendo Ant.
Oltre a un fisico unico ha anche saputo lavorare in maniera maniacale sul suo gioco, creandosi un tiro affidabile grazie a un’armoniosa meccanica e un credibile gioco spalle a canestro. Nonostante questo non ci sono giochi chiamati specificatamente per lui. “Non è come Carmelo Anthony o Kobe Bryant per i quali devi preparare un piano difensivo perché sai che se prendono la palla in un determinato punto fanno canestro. -dice Ryan Hollins- Lui ti fa male da qualsiasi posizione.”


Il suo incredibile pregio è di non apparire e convertire al massimo quello che la partita gli dà senza mai forzare e passando quasi inosservato. Gli stessi genitori dicono che spesso quando guardano il tabellone e vedono 25 punti e 10 rimbalzi alla fine del terzo quarto di fianco al suo score, non se ne capacitano. E se lo dicono Anthony Sr. ed Erainer che lo conoscono da un po’ di tempo, figuriamoci chi lo vede solo giocare a basket.
Quello che spaventa di più guardando al futuro è l’incredibile ascesa fatta di lavoro e abnegazione. E’ la cosidetta work ethic che rende Davis diverso da molti altri giocatori di talento. Dopo aver demolito i Jazz sotto 43 punti e 14 rimbalzi, ha fatto la classica sessione video post partita dove chiunque lo lodava per i jumpers, i rimbalzi e l’incredibile apporto di dominio che ha mostrato. Lui non si è mai soffermato su questo, ma quando ha visto un pick and roll in cui Trey Burke ha trovato il taglio a canestro di Trevor Booker, ha fermato la riproduzione tornando indietro.
“Ho sbagliato difesa. -ha detto- Sono stato troppo alto e non sono riuscito così a impedire il passaggio, facendomi scivolare dietro il mio uomo.”
Questo sconvolse tutto l’ambiente e dovrebbe farlo ugualmente verso suoi avversari presenti e futuri, perché se in una stagione da MVP è in grado di trovare tanti margini di miglioramento e cose su cui lavorare significa che l’espressione “sky’s the limit” è perfettamente calzante per il prossimo (forse attuale) dominatore della Lega.

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