Il dodicesimo uomo e l'arte di sventolare asciugamani

In una lega gerarchica come l'NBA, fare l'ultimo panchinaro non è facile, ma c'è chi dopo gli aciugamani ce l'ha fatta
25.01.2015 16:00 di  Simone Mazzola  Twitter:    vedi letture
Il dodicesimo uomo e l'arte di sventolare asciugamani
© foto di Twitter

Quando i prospetti lasciano il college per il draft NBA, eccezion fatta per le top picks, vengono valutati con la classica espressione se “possono fare la squadra” e ci sono moltissimi esempi riguardanti dei veri go to guy nel proprio di college finiti poi a fare i giramondo NBA con decadali o contratti non garantiti. Anche una squadra da titolo ha bisogno di tutti i propri effettivi, compreso il dodicesimo uomo che ha le sue responsabilità e non limitate allo sventolare asciugamani sui canestri dei compagni.
Una delle storie più curiose riguarda Cedric Henderson che nelle sue prime due stagioni è partito in quintetto 119 partite su 132, poi ha dovuto fronteggiare un lento ma inesorabile declino che lo ha costretto a diventare la classica figura che somiglia più a uno spettatore non pagante che a un giocatore. Nei successivi due anni infatti Henderson ha sentito il suo nome dallo speaker solo 17 volte e poco dopo ha trovato di fianco al suo nome scritto: DNPCD con costanza disarmante. L’importante è prenderla con filosofia e Henderson lo ha fatto in pieno “Non ho paura di essere il dodicesimo uomo -ha detto- perché esserlo vuol dire far parte della squadra”
Sicuramente la vita che ti confina nella cosiddetta “cuccia dell’allenatore” non è semplice perché richiede una grande forza mentale e morale nel rimanere sempre con la testa su allenamenti e partite sapendo che non ci sarà quasi mai la possibilità di mettere in mostra il proprio talento. Uno dei dodicesimi uomini più illustri della storia è sicuramente Jack Haley, a cui Rodman dedicò anche un capitolo del suo libro “Walk on the wild side”  intitolato “Piggy back Jack”, non proprio un complimento di cui andare fiero.
Haley ha passato nove anni a fare l’ultimo uomo del roster: “E’ una situazione strana –ha detto- perché formalmente fai parte del roster, ma in realtà nessuno ti considera tale.” Nonostante questa ben poco onorevole situazione Ray Allen ha detto di non aver mai visto nessuno giocare tanto duro in allenamento quanto lui. Spesso veniva addirittura ripreso perché era talmente intenso da rischiare di generare infortuni ai compagni. In fin dei conti gli scrimmage per lui erano le partite vere e come tali le affrontava.

Al capitolo “prenderla con filosofia” c’è sicuramente Scott Hastings che rimase nella lega per ben 11 anni partendo titolare solo in 19 occasioni e non chiudendo mai una stagione al di sopra dei 17 minuti di utilizzo medio. “Ero la quintessenza del dodicesimo uomo -ha detto- non contavo nulla e lo sapevo, ma durante gli allenamenti giorno dopo giorno m’impegnavo sempre al massimo per migliorarmi. Così ho trovato un posto che se non prestigioso, mi garantiva almeno il rispetto di tutti.”
A lui e a Wayne “tree” Rollins si deve l’invenzione della statistica più divertente del basket moderno: il trilione.
Per i pochi che non lo sapessero consiste nell’avere tutte le categorie statistiche a quota zero con uno o più minuti giocati. Rollins detiene il fantasmagorico record “trilionico” con quattordici minuti giocati senza fare niente. Ma niente per davvero: non un tiro, un fallo, una stoppata. Nulla di nulla. Quando Hastings gli diede il cambio nel garbage time, entrò canticchiandogli “Trilione, trilione”.

I giocatori citati sinora sono dei fenomeni parastatali, ma anche Steve Kerr (che poi qualcosa nella lega ha fatto), ha vissuto questo ruolo difficile quando militava nei Cavs. Mike Fratello nella partita del 17 dicembre 91 contro gli Heat finita 148-80, sul +35 nel quarto periodo ha guardato la sua panchina, incrociato lo sguardo con Kerr per poi mettersi a sedersi e far finire così il match. Kerr ancora oggi ricorda con amara ironia quel momento “Credo che il coach stesse aspettando il +40 -ha scherzato- perché mi riteneva un giocatore in grado di sperperare 35 punti di vantaggio in un quarto.”
Di certo non è facile calarsi in una parte del genere e lo stesso Kerr ha concluso dicendo: “In cuor tuo non accetti mai una situazione del genere e questo ti spinge a migliorarti ogni giorno, ma purtroppo dopo un po’ ci fai l’abitudine.”

Fai l’abitudine anche agli insulti e agli sfottò dei tifosi in prima fila che vedendo un giocatore far tappezzeria non perdono occasione di sfornare qualche battuta al vetriolo. Ricordiamo il caso di Tom Tolbert ex Golden State Warriors che si è dovuto sentir infamare con ogni improperio da un tifoso con il nome di Ray Tolbert (giocatore ex Indiana). A metà partita Tommy si girò verso il facinoroso tifoso dicendo: “Guarda che mi chiamo Tom, non Ray.” Il tifoso accolse l’obiezione e proseguì nel secondo tempo con gli insulti pesanti, correggendo il nome.

In queste condizioni emotive e d’ambiente è difficile rimanere concentrati durante una partita in cui sei perfettamente conscio che l’unica possibilità che hai di giocare è un attacco di dissenteria alla squadra. Per questo il trio dei Pistons Hastings-Greenwood-Henderson aveva istituito un gioco divertente per aiutarsi a mantenere alta la concentrazione. Quando uno vedeva l’altro distratto aveva il diritto di attaccargli un cerotto sul braccio. Ovviamente a fine partita i segni rossi sul braccio non si contavano, nello stupore della squadra che non si capacitava di come potessero farsi male senza giocare. Quest’attività era stata inserita dalla panchina dei Pistons dopo che una notte Daly dovette ricorrere profondamente alla sua panchina per i falli prematuri di James Edwards. Il coach si girò verso Hastings e gli disse: “Vai a marcare Ewing”. Hastings nel frattempo si stava mangiando dei popcorn sotto l’asciugamano, che alla richiesta del coach fece volare per terra non facendo una figura esemplare. Da quel momento nessuno mangiò più in panchina, tranne McHale che si fece una pizza nel finale di una partita dominata.

Ora nessuno si fa i propri comodi, è difficile vedere gente distratta, ma l’unica attività dei dodicesimi uomini è quella di sventolare asciugamani o compiere curiosi siparietti alle schiacciate tonanti dei compagni. Saranno anche giocatori NBA con tutti i pregi possibili per un lavoro di quel tipo, ma la situazione psicologica ed emotiva non è certo facile anche se ogni tanto ci sono storie come quella di Kerr che dopo esser stato “uno di loro” vince un titolo NBA con un tiro piazzato e diventa il coach di una delle squadre più belle ed elettrizzanti della storia recente NBA.

Come dice un noto intenditore di Basket NBA e non solo: “It is a great country or what?”

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