Mario Elie, il cagnaccio e il "bacio della morte"

Una carriera nata a New York, proseguita in Europa con campionati minori e finita con titoli NBA e un nome nella storia del gioco
14.12.2014 16:00 di  Simone Mazzola  Twitter:    vedi letture
Mario Elie
Mario Elie
© foto di Newshouston twitter

I giocatori NBA devono avere una gran perseveranza nel farsi trovare pronti perché una chiamata d’emergenza può sempre arrivare, anche se sono perfettamente consci che ugualmente potrebbe anche non arrivare mai. Raja Bell insegna che anche un giorno in cui sei dal barbiere, ti possono chiamare i Sixers per fare il dodicesimo e poi ti trovi a mettere la museruola per qualche minuto a Kobe Bryant durante gara 1 di una finale NBA. Se quest’occasione arriva magari vieni ricordato per un singolo highlight che ha segnato la tua carriera. Se vogliamo trovare l’azione della carriera di Mario Elie è sicuramente il “kiss of death”, ovvero il canestro da tre punti che regalo ai suoi Houston Rockets una rocambolesca vittoria in gara 7 a casa dei Phoenix Suns nella serie di finale di conference del 1994.

La vita di Elie non è affatto lineare come si potrebbe pensare. Già il nome Mario gli deriva da Mario Lanza un tenore statunitense d’origine italiana. Papà Maurice era appassionato di lirica e quando la moglie Odette diede alla luce l’ultimo (per quel momento) della stirpe, già in sala parto il papà aveva deciso il nome. Inoltre aveva anche provato la via della redenzione facendo sbarcare tutta la famiglia a New York dove trovò impiego in una ditta produttrice termosifoni. La via di Mario era il basket, anche se al primo college venne tagliato dopo qualche allenamento perché il suo 1.75 di sgraziatezza non avevano impressionato l'allenatore. Dopo un boom di dieci centimetri in estate si ripresentò alla sua seconda squadra e riuscì addirittura a condurla alla perfect season, con la postilla non secondaria della presenza di un certo Chris Mullin in squadra. Il 25-0 di squadra era un risultato importante, ma l’anno successivo Mario ebbe minuti e responsabilità da leader, guidando tutte le categorie statistiche. I suoi miglioramenti erano visibili, ma questo non gl’impedì di andare alla 170° scelta assoluta (all’epoca c’erano dieci giri di scelte).
Il secondo gran rifiuto della sua carriera arriva in quel momento quando dopo il training camp viene tagliato e obbligato a vagare per l’Europa. Vola in Portogallo dove segna con continuità disarmante senza mai capire quello che la gente voleva dirgli. Vaga per Argentina e Irlanda, dove impara anche a portare palla e a finire l’azione, tanto nessuno poteva fermarlo. George Karl è il primo a notarlo, ma il decadale d’esordio arriva dai Lakers, poi seguiti dai Sixers. La svolta arriva quando la chiamata giusta viene dalla Golden State di Don Nelson, che viene ripagata con 14 punti all’esordio e l’inizio della vera carriera NBA di quello che diventerà “The junkyard dog” (il cagnaccio).

A conferma della tesi che bisogna farsi trovare pronti perché un’occasione NBA è possibile che arrivi, da quel momento Mario iscrive il suo nome nella lega e lo farà prima da sparring partner al famoso Run TMC (Tim Hardaway, Mitch Richmond e Chris Mullin) dei Warriors, poi andando agli Houston Rockets dal 1993 al 1996 dove con il famoso Kiss of Death dà il via ai titoli in back to back dei Rockets con Olajuwon e Horry come compagni. Horry ed Elie hanno una caratteristica in comune, perché Mario che ha una percentuale del 40% da tre punti riesce a elevare il suo gioco nei momenti che contano, alzandola sino al 60% (i primi abbozzi di advanced stats degli anni novanta), così come Horry è stato in grado di iniziare la dinastia dei Lakers con la tripla famosa sul tap out di Divac e consolidare quella degli Spurs con un’altra tripla al Palace of Auburn Hills in gara 5 del 2005.
Sono proprio gli Spurs a regalare a Mario l’ultima emozione di una splendida carriera quando una delle squadre più noiose e offensivamente brutte ad aver mai vinto un titolo NBA, porta a casa l’anello nell’anno del lockout. Il Kiss of death quell’anno arrivò prima da Sean Elliott che decise un match contro i Trail Blazers con una tripla in punta di piedi (il Memorial Day miracle), ma Mario dovette limitare la coppia Sprewell-Houston, ovvero la più prolifica della lega, senza mai disdegnare il suo mortifero clutch three.


A fine carriera ha aperto un negozio di scarpe in società con il suo amico di Houston Sam Cassell, perché oltre al basket le calzature sono state sempre una costante nella vita di Mario. In gioventù erano troppi in famiglia per averne un paio a testa, mentre con l’andar del tempo e i soldi guadagnati sono diventati una vera e propria passione.

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