Steven Adams: un duro da reality show

Steven Funaki Adams è un giocatore non baciato in fronte dal talento, ma incredibilmente forte e duro. La sua ascesa in NBA è appena cominciata.
26.07.2015 17:00 di  Simone Mazzola  Twitter:    vedi letture
Steven Adams: un duro da reality show

Partita di playoffs tra Thunder e Grizzlies. Perkins e Randolph se le stanno dando di santa ragione sotto canestro. Gli arbitri li riprendono verbalmente e Zach chiede loro di fargli continuare la battaglia fisica sotto canestro a suon di mazzate.
Due partite dopo, nella stessa serie, nemmeno Randolph riesce a giocare fisico contro uno dei monoliti più duri che la storia del basket conosca. Alla fine perde le staffe, gli tira un pugno in faccia e per questo scherzetto si autoesclude dalla settima partita della serie.
Lo zigomo che ha incocciato il non piacevole destro di Zach Randolph è quello di Steven Adams, un personaggio sui generis, per certi versi unico, ma che ha rapito i cuori di molti appassionati.


Steven nasce a Rotorua il 28 luglio 1993, ma in Nuova Zelanda non si ragiona molto su quanto sia il limite logico di figli da sfornare, infatti lui è l’ultimo di diciotto fratelli. La mamma avrà sofferto le pene dell’inferno per mettere al mondo questa squadra di calcio con riserve, perché oltre all’alto numero consecutivo di sforzi, ha prodotto anche ragazzi dall’altezza media di 2.09 m. per gli uomini e 1,93 m. per le donne.
Ovviamente con queste prerogative lo sport diventa quasi automatico, infatti sei dei fratelli hanno giocato a livello professionistico nella nazionale di basket della Nuova Zelanda, ma il fiore all’occhiello della famiglia è Valieria Kasanita Vili-Adams che nel 2008 ha vinto le olimpiadi nel lancio del peso, replicando poi con altri tre mondiali sul gradino più alto del podio.
Se mamma ha fatto fatica, di sicuro anche papà non è stato da meno, infatti Sid era un uomo inglese finito in Nuova Zelanda per servire la Roayl Navy, solamente che un piccolo difetto gli ha impedito di proseguire la carriera in marina: era troppo alto. Si stabilisce così a Rotorua, una città di 50.000 abitanti nell’isola Nord della Nuova Zelanda, per formare una delle più numerose famiglie dello sport americano che avrebbe trovato nell’ultimo nato un giocatore NBA
Steven è l’ultimo nato, ma ha già le idee chiare perché quando uno dei fratelli riesce a farsi dare in gestione una fattoria poco fuori Rotorua, trova quella che sarà potenzialmente la sua strada. La vita all’aria aperta e in mezzo alla natura lo ha sempre affascinato, ma lui era colpito e incredibilmente attratto dall’etica lavorativa continua e costante che una fattoria ti obbliga a seguire. In una conferenza stampa d’inizio stagione ha detto che il suo primo obiettivo nella vita era veramente fare l’agricoltore: “Non sto scherzando –ha detto- volevo farlo davvero ed era il mio primo pensiero”.
Questa sua caparbietà nel lavoro sarà il leit motiv della sua esistenza, perché è vero che Madre Natura gli ha dato un fisico da Dio Greco, ma per tutto il resto è servito lo sforzo attraverso le difficoltà.

La prima che incontra è già all’età di tredici anni quando suo papà muore per un cancro facendogli perdere improvvisamente il suo principale riferimento di vita. A un’età così giovane e con un dolore così grande, prendere la strada sbagliata è più facile che rimanere su quella giusta, così comincia a saltare ripetutamente la scuola, a dire bugie ai fratelli e comportarsi come chi non ha più nulla da perdere.
Il fratello maggiore Warren capisce che la deriva è pericolosa, così decide di prendere il fratellino e andare a Wellington, 300 miglia a sud di Rotorua. Dopo due settimane lì, Warren manda Steven a vivere da Blossom Cameron, con cui aveva giocato in gioventù e creato un buon rapporto. Sistemotosi nella casa della ragazza, che gli dà i primi rudimenti di vita e lo segue negli allenamenti, Warren gli fa conoscere anche Kenny McFadden che aveva aperto una Basketball Accademy proprio in quella zona. Molti ragazzi arrivano in quell’accademia per imparare a giocare, ma c’è un ostacolo da 10.000 dollari per farne parte.

Nessuno della famiglia aveva così tanti soldi da potersi permettere una tale retta per Steven, così gioca solo nella zona di Wellington, anche se l’intercessione di McFadden è la chiave di volta. Lo prende letteralmente sotto la sua ala protettrice, lo accompagna a Scots College ogni giorno e lo accetta gratuitamente nella sua accademia. “Steven doveva imparare come si fa a imparare” -ha detto McFadden- e glielo insegna molto bene sia nella vita che nel basket. Ogni giorno alle sei si sveglia e lo passa a prendere per assicurarsi che vada a scuola, sino a quando i ruoli s’invertono ed è Steven che gli chiede con svariati SMS di non dimenticarselo a casa la mattina dopo. Il coach è molto amico di Jamie Dixon, allenatore di Pittsburgh e nel momento in cui torna in Nuova Zelanda dopo aver condiviso la nazionale proprio con McFadden anni prima, cerca di reclutare qualche giovane promessa, ma soprattutto chiede lumi su un lungo dal grande fisico e dalla granitica durezza di cui ha sentito parlare.
Il primo a cui chiede è ovviamente McFadden che facilmente lo indirizza verso Steven. Da quel momento Dixon farà altri cinque viaggi in Nuova Zelanda per visionarlo e reclutarlo. Dopo l’ultimo di questi, durato 16 ore, rischia la vita a causa di un’embolia polmonare per le troppe ore rimasto seduto e passa qualche giorno in ospedale. Fortunatamente l’embolia colpisce il polmone e non il cervello (come ha sottolineato lo stesso Jamie in un’intervista), così dopo quell’ultimo sforzo torna a stare bene e soprattutto strappa l’accordo con Adams per portarlo a Pittsburgh.

Purtroppo per il coach la sua presenza all’interno dei Panthers è di una sola stagione e con 7.2 punti, 6.3 rimbalzi e 2 stoppate viene eletto nell’All Freshmen Team. I Thunder non attendono oltre per farne la dodicesima scelta assoluta nel draft 2013. Sembra un azzardo, anzi per moltissimi lo è oltre le più logiche possibilità di riuscita, ma Presti sa di aver a disposizione un sistema che funziona e soprattutto non ha bisogno di lui subito, infatti lo affianca al veterano Perkins, ovvero uno dei più duri e tosti lunghi in circolazione.
I blocchi di Perk sono dei veri e propri monoliti, ma Adams impara in fretta e utilizza la sua notevole intelligenza, unita alla grande voglia di migliorare per fare il salto di qualità. Nel primo anno gioca poco, ma impara cosa voglia dire stare in NBA, ergendosi a protagonista assoluto all’interno dello spogliatoio. Kevin Durant richiesto su chi sia il compagno più divertente, non ha dubbi e fa il nome di Adams perché con la sua apparente inespressività fa letteralmente sbellicare tutti dal ridere. E’ una personalità particolare che in campo scala posizioni già nel suo primo anno in NBA conquistandosi minuti importanti sul finire della stagione.

L’obiettivo di Presti è di portarlo a essere il centro titolare della squadra, ma non si aspetta di vederlo nello starting five subito dalla stagione successiva. La sua fisicità è impareggiabile nella lega, ha preso pugni, spinte e gomitate non spostandosi di un singolo millimetro, ma continuando l’azione sino a quando un provvedimento disciplinare non fosse stato sanzionato.
La differenza tra lui e il resto del mondo sta nel fatto che incassa la fisicità e i contatti in maniera incredibile e ha una soglia del dolore non consona a un umano. Sia Durant che Westbrook hanno confermato di averlo visto continuare allenamenti o partite con dita seriamente slogate o con tagli sanguinanti a seguito di colpi pesanti.
Non c’è niente che lo possa scalfire, la sua faccia è sempre quella dall’inizio alla fine della partita: lotta, difende e cattura rimbalzi come se fosse l’ultima cosa che fa e ci prova con tutti i mezzi possibili (e spesso anche oltre). Questo fa letteralmente uscire dalle staffe gli avversari che dopo aver provato a punirlo corporalmente (con relativi risultati), passano a reazioni di pura ira che costano a Randolph una gara 7 di playoffs e a Henson un’espulsione, mentre lui con le mani sui fianchi guarda tutti dalla sua altezza e dalla sua regale indifferenza dicendo: “Sapete picchiare solo così debolmente? Dilettanti”.

Ha tanti “nemici” all’interno della lega, e guarda con sorriso la diatriba recente tra Barnes e il suo compagno Ibaka su chi de due sia il più duro della lega, Poi con i compagni di squadra compie imprese come il celebre saluto prepartita con Nick Collison che passerà alla storia come uno dei momenti più divertenti di sempre.
Preparatevi perché sentirete ancora tanto parlare di Big Kiwi, Funaki o The Big Hurt sia dentro che fuori dal campo. E se mai vi verrà in mente di fare un reality show sulla vita di qualche giocatore, depennate la lista e scegliete lui.

 

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