Jimmy Butler: La "power of will" di chi aveva perso tutto

La guardia dei Bulls è passato dall'essere cacciato di casa dalla madre al trofeo di Most Improved Player attraverso un percorso tortuoso.
02.08.2015 17:00 di Simone Mazzola Twitter:    vedi letture
Jimmy Butler: La "power of will" di chi aveva perso tutto
© foto di Twitter Bulls

"This is ten percent luck, twenty percent skill
Fifteen percent concentrated power of will
Five percent pleasure, fifty percent pain
And a hundred percent reason to remember the name"

 

Questa è una strofa della canzone “Remember the name” dei Fort Minor. Per dare un appiglio ai meno addicted sono un gruppo fondato da Mike Shinoda, storico componente dei Linkin Park.
Questo è l’esempio più calzante per un giocatore / persona che ha dimostrato di avere la “power of will” di cui parla il gruppo nelle proprie lyrics e di nome fa Jimmy e di cognome Butler.
Ha appena ricevuto il premio come Most Improved Player con il secondoto classificato (Draymond Green) che ha preso meno della metà dei suoi voti.
E’ un premio a tutti i suoi primi anni di vita (assieme a un ricco rinnovo contrattuale), perché è una riconoscenza individuale nella NBA, in barba a chi gli aveva detto che non ce l’avrebbe fatta o addirittura alla mamma che lo aveva letteralmente cacciato fuori a calci di casa per non ben precisati motivi.


Jimmy nasce il 14 settembre 1989 a Omball, circa 40 miglia Northwest di Houston, una città di poco più di 11 mila abitanti e all’incirca la metà di quelli che oggi vede stipare le tribune dello United Center. Lui è veramente un ragazzo “Texas proud”, che conosce e adora la terra dove è nato, che si è inserito nel tessuto connettivo della società e ne ha fatto sue ogni usanza e logica. Purtroppo il rapporto tra bianchi e afroamericani è circa 15 a 1, infatti le situazioni in cui la segregazione razziale è venuta fuori prepotentemente non si contano nemmeno, arrivando anche a sfociare in chiamate minacciose di sette alla Ku Klux Klan.
Per questo non ha vissuto una gioventù semplice, che a 13 anni diventa quasi impossibile quando mamma Londa lo caccia letteralmente di casa a causa di un look che non le andava a genio. A una così tenera età Jimmy non ha una casa in cui dormire, ma almeno ha un caro amico di nome Jermaine Thomas con il quale spartisce una camera da due letti, affittata dal padre che fa il conducente di camion e per questo motivo non c’è quasi mai.
I due si trovano a vivere una vita autonoma, quasi errante, senza la supervisione dei genitori, ma anche senza il sostentamento economico, infatti i due raccontano di andare in giro a racimolare qualche soldo per poter andare al supermercato e mangiare il loro consueto pasto di giornata: un pacchetto di patatine e una bottiglia di Gatorade.

La sua vita ha la prima svolta verso la fine del suo anno da senior all’High School quando incontra Jordan Leslie, un freshman di belle speranze che stava partecipando a un torneo e soffriva di un recente passato difficile a causa della morte del padre in un incidente stradale. Nell’estate successiva Michelle Lambert, la mamma di Leslie, si porta in casa sia Jimmy che Jermaine e li fa dormire in una delle quattro stanze che aveva a disposizione. Mamma Lambert aveva visto in lui un uccellino ferito, dai modi educati, gentili, ma dal carattere estremamente introverso e timido.

Jimmy in realtà era molto felice perché dormiva su un materasso morbido in una camera tutta sua e poteva indossare vestiti puliti con una bella collezione di magliette e pantaloncini da basket. Sì, perché il basket era il suo sfogo e si sentiva il nuovo Tracy McGrady. Andava convinto dagli amici dicendo di poterne segnare 40 in faccia a Rose.
La realtà è ben lontana dalle sue fantasie, infatti nella sua carriera di High School non fa propriamente le onde e non riceve nessuna offerta da college di Division One.
Prende sul personale questa mancanza di considerazione continuando a ripetersi che si sbagliavano tutti nel non ritenerlo abbastanza forte. Nonostante ciò deve accontentarsi di Tyler Communitiy College, con la speranza che qualcuno lo notasse, cosa che puntualmente accade anche se non nei modi più canonici.
Buzz Williams, all’epoca osservatore di Marquette, lo avvicina dopo una partita e gli dice che potrebbe diventare forte, anche se al momento fa abbastanza schifo. Butler non ci pensa due volte e gli risponde che se avesse voluto puntare su di lui avrebbe visto il suo culo strisciare a terra durante gli allenamenti. Tornato al campus Williams fa il nome di Butler e nel 2008 viene preso con una borsa di studio. 
Per questo Williams, pur con tutta la sua ruvidità, diventa la prima figura maschile d’autorità nella vita di Jimmy. “Sono stato sincero con lui -ha detto- aveva ancora moltissimo lavoro da fare”.
Dopo un mese di vita a Marquette chiama la mamma (quella vera e non quella biologica) dicendo di aver fatto un errore e di voler tornare, ma viene respinto con perdite dall’altro capo del telefono che gl’intima di restare dov‘è e lottare.
In campo era difficile trovare spazio perché c’erano Wes Matthews, Lazar Hayward e Jerel McNeal, mentre Williams continuava a gridargli contro per fargli dare di più e migliorare. Questo a Jimmy non creava nessun problema, nonostante l’aspetto e i modi brutali di Williams. In quelle reprimende continue trova il modo di mettere da parte i sogni di McGrady e diventare un uomo utile nella squadra, difendendo forte, andando a rimbalzo e facendo il facilitatore in ogni parte del gioco. Non era fenomenale in nulla, ma bravo in tutto e questo gli porta grande considerazione in Williams che gli concede 34 minuti di media nel suo anno da junior, quando Maquette entra da favorita al primo turno del torneo NCAA contro Washington. Negli ultimi secondi di quella partita Pondexter scappa alla sua guardia e segna il canestro vittoria. Il ricordo devasta internamente il ragazzo che appende in camera sua la foto di quel canestro e lo usa come motivazione. Questo gli porta una stagione notevole e una scelta dei Chicago Bulls, che con Thibodeau in panchina avevano visto grande futuro per lui.

L’ex assistente di Rivers sa perfettamente di essersi portato a casa una gemma che perfettamente si sposa con la sua idea di basket, perché è un giocatore fisico, grande difensore e intelligente. Nonostante la presenza di un altro pretoriano come Deng a roster, Butler comincia subito a farsi valere, aggredendo qualsiasi secondo degli allenamenti per migliorare. E’ un escalation e pian piano guadagna sempre più minuti e rispetto sino a quando nel 2012 ne gioca quarantotto filati in cinque delle dodici partite di playoffs giocate dai suoi Bulls, marcando divinamente anche LeBron James. E’ già un giocatore in rampa di lancio, ma nell’estate 2014 arriva il definitivo salto di qualità.

Perde otto chili, si allena tre volte al giorno sui movimenti e la rapidità che con la perdita di peso migliora sensibilmente e lavora maniacalmente sul tiro da fuori studiando videotape di Jordan e Bryant per emularne tecnica di tiro e gioco in post medio.
Il risultato è strabiliante, perchè scomodare di complimenti Dwyane Wade, anche lui ex Marquette, non è cosa da poco. Si prende in mano la squadra dal punto di vista offensivo tentando un carreer high di 14.3 tiri per partita, senza mai perdere di vista l’utilità e il bene della squadra.
Il suo miglioramento lo ha portato anche a decidere delle partite nel finale e vincere il trofeo di giocatore più migliorato della stagione, sdoganando anche una capigliatura che ormai è il suo marchio di fabbrica: “Quando ero piccolo tutti mi prendevano in giro per la mia pettinatura -ha detto- ora è diventata il mio brand. Così vanno le cose, quando perdi sei da solo e quando vinci diventi un’icona”.
C’è tanta verità nelle sue parole, ma anche la consapevolezza che per diventare un simbolo e uno dei migliori giocatori NBA in circolazione, ha dovuto lavorarne tanto e superare sia difficoltà che problemi di vita che alcuni non affronterebbero in tre o quattro esistenze.
Perché come diceva il compianto Jim Morrison: “Non è forte chi non cade, ma chi cadendo ha la forza di rialzarsi”.

 

LEGGI LE ALTRE NBA STORIES

Steven Adams: Un duro da reality show
Nick Barnett: Da trent'anni "Quite frankly" la voce dei Warriors
Tristan Thompson: L'incubo Irving e il cambio mano per tirare
Matt Barnes: trash talk con gli avversari, amico con i compagni
Russell Westbrook: un cuore d'oro con la competizione nel sangue
Javaris Crittenton: dal dominio su LeBron al narcotraffico e le gang
Steve Nash: la capacità di essere i migliori in campo e fuori
Giannis Antetokounmpo: dalle finte Vuitton a volto futuro dei Bucks
Larry Sanders: Una storia di basket e vita piena di difficoltà
Anthony Davis: dall'insulto di Calipari al dominio in NBA
Michael Kidd-Gilchrist: anche chi gioca in NBA, non sa tirare in sospensione
Hassan Whiteside: salvare le gambe da un incidente e dominare l'NBA passando dal Libano
Nick Young: il suo magico mondo dalla morte del fratello al museo delle scarpe
Il dodicesimo uomo e l'arte di sventolare asciugamani
Lauren Holtkamp: essere donna e arbitrare un mondo di uomini con autorità
Bobby Phills: una carriera stroncata, ma un'amicizia che non muore mai
Chick Hearn, quando una voce rimane nella storia dello sport
Rajon Rondo, lo scherzo della natura e l'arte del playmaking
Kobe Bryant: dagli zero punti in un torneo al sorpasso su Jordan
Mario Elie, il cagnaccio e il "bacio della morte"
Juan Dixon: da un'infanzia tremenda alla casa di Maryland
Jason Collins, il primo giocatore apertamente gay si ritira
Ben Uzoh, una tripla-doppia NBA, senza la sensibilità del braccio
Scampato alle pallottole, Marcus Smart si gode l'NBA